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ARBA’À MINÌM – LE QUATTRO SPECIE

Dal testo della parashà

(39) Però al quindici del mese settimo, quando ritirerete le derrate della terra, celebrerete la festa del Signore sette giorni: il primo giorno (sarà) dì di riposo, e l’ottavo giorno dì di riposo. (40) E vi provvederete pel giorno primo dei frutti dell’albero maestoso [cedro], dei rami di palme, dei rami di mirto, e salci di riviera; e farete allegria innanzi al Signore, Iddio vostro, sette giorni. (41) La festeggerete [questa festa della raccolta] qual festa del Signore, sette giorni all’anno; statuto perenne per tutte l’età avvenire, la festeggerete nel mese settimo. (42) Nelle capanne abiterete sette giorni: tutti gl’indigeni [e quindi possidenti] in Israel abiteranno nelle capanne. (43) Affinché sappiano i vostri posteri che nelle capanne ho fatto abitare i figli d’Israel, quando li trassi dalla terra d’Egitto [cioè perché non insuperbiscano per l’abbondante ricolto, ma rammentino l’antica miseria, e riconoscano da Dio la loro prosperità]. Sono io, il Signore, Iddio vostro. (44) E Mosè espose ai figli d’Israel le solennità del Signore.




ARBA’À MINÌM – LE QUATTRO SPECIE 4

L’etròg – il cedro: Il cedro e la vecchiaia

Un Midràsh poco noto (Wayiqrà Rabbà, 30:12) mette in rapporto le quattro specie che usiamo agitare durante la festa di Sukkòt, con personaggi biblici fondamentali. In questa prospettiva il frutto del “bell’albero”, lo ‘etz hadàr (Wayiqrà, 23:40) ci rimanda ad Avraham che

D. ha abbellito di una bella vecchiaia come è scritto “E Avraham fu vecchio, zaqèn (Bereshìt, 24). Ora, la Torà enuncia: “Onorerai (letteralmente: abbellirai, we-hadartà) il viso dell’anziano, zaqèn” (Wayiqrà, 19), la parola hadàr è messa in relazione con ve-hadartà.

Così, l’albero splendido è messo in rapporto con la vecchiaia. Si produce qui un ribaltamento totale della percezione che la società moderna ha delle persone anziane. Mentre la vecchiaia ha spesso un connotato di deprezzamento, la tradizione ebraica al contrario afferma che essa riveste una dignità particolare.

Il Midràsh prosegue collegando il cedro con Sarà, la moglie del primo patriarca, come è detto: “Avraham e Sarà divennero vecchi” (Bereshìt, 18). Ne consegue che tenere in mano il cedro vuol significare quanto è importante tener per mano le persone più anziane non soltanto per aiutarle a camminare nello spazio geografico, ma anche affinché esse possano guidarci con l’esperienza e la saggezza che la vita ha loro permesso di acquisire.

Si può estendere questa riflessione rammentando che si usa metaforicamente invitare nelle nostre sukkòt le personalità della Torà: queste antiche figure delle quali l’uomo moderno ha tanto bisogno.


Il lulàv – il ramo di palma: Il ramo di palma e l’educazione

Il ramo di palma (kappòt temarìm) allude a Yitzchàq che è stato legato (altro significato del termine ebraico “kappòt”) e posto sull’altare all’atto della legatura sulla montagna di Morià (Wayiqrà Rabbà, 30). Yitzchàq rappresenta la virtù del timore di D., ossia quel modo di comportamento in cui l’uomo non agisce se non è a priori ben certo della liceità del suo atto. In questa incertezza si pone, per così dire, in stand by, esercitando anzitutto quella ricerca interiore che è necessaria per comprendere l'essenza della vita.

Il Midràsh prosegue mettendo in relazione il ramo di palma con Rivqà, la moglie del secondo Patriarca: come la palma produce dei frutti e delle spine, così Rivqà ha dato alla luce un uomo virtuoso Ya’aqòv, e un miscredente, Esaù. L’albero non dà solo frutti. I rampolli di una famiglia possono essere molto diversi tra loro, addirittura opposti. Sarà quindi necessario adattare la pedagogia tenendo conto delle particolarità di ciascuno di loro.

Tenere in mano il ramo di palma ci porta dunque a fare proprio questo ritegno prima di agire ed a rimanere concentrati sul difficile esercizio dell’educazione. Il frutto non cade lontano dall’albero, dice il proverbio. Ma un Maestro ha aggiunto: se soffia un vento impetuoso, può trasportare il frutto molto lontano. Non si lascia la mano del figlio nemmeno quando è cresciuto. Si continua ad accompagnarlo. Quest’idea ce la suggerisce l’uso di agitare il ramo di palma nelle quattro direzioni cardinali, in alto e in basso.


Hadàs – il mirto: Il mirto e i rapporti parentali

I rametti di mirto corrispondono a Ya’aqòv: come il mirto è ricco di foglie, così Ya’aqòv era circondato da una moltitudine di figli (dodici figli e una figlia). Questi rametti vengono anche messi in rapporto con colei che fu la prima moglie di Ya’aqòv, Lea, che fu benedetta con sei figli e una figlia (Wayiqrà Rabbà, 30).

In questo insegnamento il padre e la madre sono percepiti come uno stelo e i figli come le foglie. Le foglie vestono lo stelo, come i figli che danno senso alla vita dei genitori. Ne sono il prolungamento, la linfa, che


parte dal suolo, risale la lunghezza dello stelo per dispiegarsi nel fogliame.

Il genitore è un vettore di trasmissione; trasporta il sangue della vita materiale e spirituale per distribuirlo ai suoi rampolli. Il termine ebraico per designare la foglia è ” ’alé” la cui radice è “ ‘al” , sopra. La foglia, la discendenza, è l’elemento che si eleva quando sa saziarsi della linfa che la Torà rappresenta. Tenere nella mano il mirto insieme alle altre specie porta ad affermare quanto il genitore ebreo avrà a cuore di far crescere le foglie prodotte dal suo stelo, e dunque a prodigare un insegnamento della Torà vivo, intelligente, autentico affinché la sua progenie possa incessantemente sbocciare ed elevarsi.


Aravà – il salice: Il salice e la vulnerabilità

I salici di fiume rimandano a Yosef: come il salice appassisce prima delle altre specie, così Yosef è morto prima dei suoi fratelli pur essendo uno dei più giovani. Parimenti, i salici fanno riferimento alla madre di Yosef, Rachel. Malgrado fosse la figlia minore, morì per prima (Wayiqrà Rabbà, 30). Ne consegue che il salice rappresenta la dimensione tragica: quella delle persone deboli, fragili. Il salice perde molto rapidamente la sua umidità. Tenere nella mano il salice, con le altre specie del mazzo di Sukkòt, consente di affermare la nostra determinazione a sostenere le persone più vulnerabili, ad accompagnarle nei loro passi, a dar loro sollievo.

Il salice si dice in ebraico ’aravà, una parola la cui radice è ’arev che significa “responsabile”, e un’altra radice denota la sera (‘erev). Si tratta qui dunque del dovere di responsabilità nei riguardi di coloro che sono immersi nella notte, nella confusione, nell’oscurità.

La Torà precisa: “il salice di fiume”. Occorre tenerli, trattenerli, coloro che sono trascinati via dalla corrente della vita, dai flutti impetuosi che tutto distruggono al loro passaggio; offrir loro un ancoraggio, urifugio. Ecco perché la tradizione rabbinica insiste, ad esempio, sul dovere di invitare gli indigenti nella sukkà.


Note:

4 Da Actualité Juive – no. 1443 del 20 luglio 2017, trad. Emanuele Cohenca.





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