BITYÀ, LA FIGLIA DEL FARAONE
Di Amos Israel Rabello1
Introduzione
Nel quadro del grande racconto dell’uscita dall’Egitto, un evento
che riviviamo ogni anno nella sera del Sèder di Pèsach,
traspariscono le figure di importanti personalità. Queste
personalità appaiono nel racconto della redenzione per un breve
momento, spariscono dopo aver compiuto la loro missione e
apparentemente non resta di loro nessun altro ricordo.
Una delle personalità, per così dire, minori è quella di
Bityà la figlia del Faraone. L’importanza della sua missione nel
salvataggio dei figli d’Israele in Egitto non può essere sminuita.
Infatti senza la sua insubordinazione nei confronti degli ordini del
padre, Moshè non sarebbe sopravvissuto2. La figlia del Faraone
appare per un breve momento, come la persona giusta al
momento giusto. Poi sparisce.
Tuttavia quello che la Torà nasconde, ce lo rivela il
Midràsh dove Bityà non appare solo per un breve momento. Nel
Midràsh, Bityà viene menzionata anche molto tempo dopo
l’episodio del salvataggio di Moshè e i Maestri del Midràsh
raccontano che ebbe molti altri compiti.
In questo scritto cercheremo di citare alcune fonti dai
midrashìm e di trarre degli insegnamenti sul ruolo importante
che Bityà la figlia del Faraone ebbe nella redenzione d’Israele
dall’Egitto in generale, e nel porre le basi per la futura esistenza
del popolo d’Israele, in particolare.
Bityà la proselita
Il nome della figlia del Faraone non è menzionato nel libro di
Shemòt. È l’anonima figlia del Faraone che salva il futuro leader
d’Israele nel momento giusto e poi non si parla più di lei. Dal
Midràsh impariamo tuttavia che essa coprì un ruolo importante
anche dopo l’episodio del salvataggio di Moshè dalle acque.
Nel Midràsh (Shemòt Rabbà, 18) viene raccontato che
Bityà era la primogenita del Faraone. Come tale era forse anche
destinata a succedere al padre sul trono dell’Egitto; forse questo
è il motivo per cui viene inclusa nel Midràsh tra i dieci Re che
divennero proseliti. Tuttavia anche se essa non fosse stata
destinata a riempire l’alto ruolo di regnante, certamente aveva
una notevole importanza nella casa reale e doveva avere anche
qualche influenza nei confronti del padre.
È logico immaginare che Bityà fosse profondamente
coinvolta nella cultura dell’Egitto e che godesse di tutti i privilegi
dei membri della casa reale. Nasce quindi spontanea la domanda
di quale fu il motivo che portò questa principessa a comportarsi
in modo inaspettato per avvicinarsi a un bambino che piangeva,
averne compassione e salvarlo, compiendo un atto di
insubordinazione per il quale avrebbe potuto pagare con la
propria vita.
Il comportamento di Bityà desta meraviglia; infatti il
Midràsh (Pesiqtà, Shemòt 2) fa notare che le sue ancelle le
dissero: “Nostra signora, quando un Re emana un decreto anche
se nessuno lo osserva, i figli e i nipoti del Re lo osservano, e tu
salvi un neonato trasgredendo così apertamente il decreto di tuo
padre che ha dato ordine di uccidere tutti i neonati maschi”?
I Maestri del Midràsh (Pesiqtà Zutratà Shemòt, 2)
raccontano: “R. Yochanàn a nome di R. Shim’òn bar Yochài disse
che [Bityà] era scesa per lavarsi dagli idoli della casa paterna e
come dice il profeta (Isaia, 4:4): Se il Signore ha lavato la
sporcizia delle figlie di Sion...”, come per dire che Bityà stessa
ancor prima di incontrare il piccolo Moshè e ancora prima di
tirarlo su era scesa nelle acque del Nilo allo scopo di purificarsi
dell’idolatria paterna e di fare una tevillà (abluzione) da
proselita.
Solo a seguito della sua decisione di separarsi dall’idolatria Bityà
fu in grado di compiere l’atto di compassione di salvare Moshè.
Fu proprio il suo “proselitismo” che derivava apparentemente dal
desiderio di avvicinarsi al popolo d’Israele il fattore che fece sì
che salvò Moshè.
Nei Proverbi (14:34) è scritto “La compassione delle
nazioni è peccato” e fintanto che i gentili sono devoti all’idolatria
non è possibile che possano compiere atti di vera compassione.
È possibile che il Midràsh riveli un pensiero più profondo.
L’essenza della conversione è di diventare parte del popolo
d’Israele. Nel momento in cui s’immerge nell’acqua, il proselita
abbandona il suo popolo e la sua famiglia e si aggrega a un altro
popolo, a quello d’Israele. Il fattore che rende unico il popolo
d’Israele in quanto popolo è la Torà. Pertanto il proselita è
obbligato ad accettare la Torà e le mitzwòt. Non vi è altro modo
per diventare parte del popolo d’Israele e questo passaggio si
manifesta con l’accettazione delle mitzwòt.
Se quanto abbiamo scritto è corretto, è possibile che la
conversione della figlia del Faraone e l’atto di salvare Moshè
furono due eventi che avvennero contemporaneamente. Il
cambiamento di Bityà non fu solo quello ideologico che si
manifestò nel rigetto dell’idolatria paterna; in lei avvenne anche
qualcosa di più profondo, cioè il desiderio di avvicinarsi al popolo
d’Israele e di diventarne parte. Il fatto che Bityà commise un atto
che metteva in pericolo la sua vita per salvare Moshè mostrava
che era mossa dal desiderio di aggregarsi al popolo d’Israele e di
abbandonare l’idolatria. La sua discesa nel Nilo venne considerata
una conversione retroattiva.
Dopo che Moshè fu salvato divenne evidente a tutti che il
bagno che Bityà aveva fatto era stato un atto di conversione e di
dimostrazione della volontà di aggregarsi al popolo d’Israele.
Questa idea appare anche in un altro Midràsh (Midràsh Tannaìm
a Devarìm, 33:1) dove riguardo alla parola Berakhà (benedizione)
i Maestri dicono che si può leggere anche Berekhà (luogo in cui si
raccoglie l’acqua): Così come una Berekhà purifica gli impuri,
Moshè avvicina i lontani; lì Bityà e qui Reuven3. Se Bityà voleva
fare la tevillà (bagno di conversione) nel Nilo ancora prima di
imbattersi in Moshè come è possibile attribuire il suo pentimento
(dall’idolatria) a Moshè Rabbènu? Pertanto dobbiamo spiegare che
proprio l’azione di salvare Moshè fu la causa che fece sì che Bityà
diventasse proselita molti anni dopo.
Sulla base di questa idea, possiamo capire quello che
racconta il Midràsh Pesiqtà succitato dove è anche detto che Bityà
avrebbe dovuto morire nella decima piaga della morte dei
primogeniti, ma sopravvisse grazie alla protezione di Moshè.
Il problema è che se Bityà era diventata proselita ancora
prima di salvare Moshè o anche poco dopo, per quale motivo ebbe
bisogno della protezione di Moshè Rabbènu? Non era già
considerata una donna giusta? Pertanto bisogna concludere che
quella di Bityà non si trattava di una completa conversione.
L’azione che la protesse quando avrebbe dovuto morire con gli
altri primogeniti egiziani fu solo il fatto che salvò la vita a Moshè.
Le due madri di Moshè: la giusta e colei che perseguiva giustizia
Il legame tra Bityà e Moshè non era superficiale. Non solo si prese
cura del bambino ma lo tirò su come se fosse stato suo figlio. Il
nome Bityà ci è noto dal versetto (Cronache, I, 4:18) dove è
scritto: “E sua moglie giudea partorì Yered padre di Ghedor e
Chever padre di Sochò e Yequtiel padre di Zanoach, e questi sono
i figli di Bityà figlia di Faraone che Mered prese in moglie”.
Il Talmùd nel trattato Meghillà (13a) interpreta questo versetto
spiegando che parla di Moshè e di Bityà e da qui deriva
l’insegnamento che, dal momento che Bityà non partorì Moshè,
chi adotta un orfano o un’orfana è considerato dalla Scrittura
quasi come se li avesse partoriti.
L’atto di compassione di Bityà fece sì che fu scritto:
“Questi sono i figli di Bityà figlia di Faraone”. R. Yehoshùa’ da
Sikhnin a nome di R. Levi insegnò: Il Santo Benedetto disse a Bityà
figlia di Faraone: Moshè non era tuo figlio e tuttavia l’hai
chiamato tuo figlio; anche tu pur non essendo mia figlia ti chiamo
figlia mia, come è detto (Midràsh Waiqrà Rabbà,1 ) “i figli di
Bityà ovvero Bat Y-h (figlia di D-o)”.
Perché la Provvidenza divina scelse proprio Bityà come
madre adottiva di Moshè? Il commento Dà’at Miqrà (Mossad
Harav Kook) al libro di Shemòt si sofferma sul fatto che la
redenzione dall’Egitto è basata su due motivi: il giuramento e il
patto dell’Eterno con i patriarchi, e il duro asservimento dei figli
d’Israele da parte degli egiziani. Gli egiziani oppressero i figli
d’Israele in modo eccessivo, come è scritto: “Perché ho saputo
che hanno agito di malvagio proposito nei loro confronti” e
pertanto il Santo Benedetto li punì con le dieci piaghe e salvò i
figli d’Israele.
Insieme con questi due motivi della redenzione, anche
colui che li guida fuori dall’Egitto dev’essere un giusto al livello
da poter meritare di guidare il popolo come promesso dall’Eterno
nel patto con i patriarchi; e deve anche perseguire giustizia per
poter salvare il popolo trattato senza giustizia che si trova in balìa
degli egiziani. Moshè Rabbènu aveva entrambe le caratteristiche.
Possiamo forse suggerire che queste due caratteristiche
derivarono a Moshè dalle sue due madri. La caratteristica di
essere un uomo giusto derivò dalla madre biologica di Moshè, cioè
da Yochèved e dal padre ‘Amràm, che gli tramandò le forze
spirituali proprie della tribù di Levi, responsabile di tramandare
la Torà di generazione in generazione. La caratteristica di perseguire
giustizia e di aiutare il prossimo derivò a Moshè
dall’influenza della madre adottiva, come è scritto “e vide le
loro sofferenze” (Shemòt, 2:11) e poi anche “e Moshè si alzò e le
salvò”(Shemòt, 2:17). Proprio lei che vide un bambino che
piangeva e decise di salvarlo nonostante tutto e di fargli del bene,
inculcò nell’anima del figlio adottivo le caratteristiche di
perseguire giustizia4.
Si può suggerire che questa idea è implicita nel Midràsh.
Quando i due israeliti litiganti rinfacciano a Moshè: “chi ti ha
nominato capo e giudice su di noi?” (Shemòt, 1:14), i Maestri
spiegano per quale motivo parlarono in questo modo con Moshè.
Gli dissero: non sei tu figlio di Yocheved? Perché ti chiamano
figlio di Bityà e vuoi farci da superiore e da giudice? Faremo
sapere quello che hai fatto all’egiziano” (Shemòt Rabbà, 1).
Senza dubbio la spiegazione del Midràsh riguardava la
possibilità di Moshè di imporre la propria volontà agli altri in
quanto figlio della principessa, che aveva anche il diritto di punire
i colpevoli. Se invece fosse stato figlio di Yochèved non avrebbe
avuto alcuna autorizzazione a farlo.
È possibile che vi sia un altro aspetto più profondo in
questo episodio. I due litiganti rinfacciarono a Moshè che egli non
aveva il potere di redarguirli e di esigere giustizia: “Tu Moshè sei
solo figlio di Yochèved e non hai affatto le facoltà di Bityà. Fino
a quando vuoi occuparti di cose sacre, fallo pure; ma non hai il
diritto di pretendere di comportarti da figlio di Bityà e di esigere giustizia”.
La loro argomentazione riguardava il doppio compito
di Moshè e i due litiganti volevano inficiare il suo ruolo di
perseguitore di giustizia. Noi sappiamo invece che Moshè Rabbènu
era un vero perseguitore di giustizia così come era un vero giusto.
Il suo perseguire giustizia arrivava al punto di andare a salvare e
curare un agnellino che era fuggito dal gregge. L’argomentazione
dei due litiganti era chiaramente falsa.
Bityà e Calèv: due ribelli per il bene
I Maestri raccontarono che quando la Scrittura afferma che Bityà
si sposò con Mered, quest’ultimo non era altro che Calèv figlio di
Yefunnè, discendente di Giuda. Così come Calèv andò
controcorrente nell’episodio degli esploratori (Bemidbàr, 13:30),
Bityà si insubordinò al padre. Il matrimonio tra queste due
personalità fu del tutto appropriato. Il Midràsh aggiunge che
Calèv salvò il gregge (i figli d’Israel) e Bityà salvò il pastore
(Moshè) e pertanto era giusto che si sposassero l’uno con l’altra.
Non solo, ma ai meriti di Bityà non viene solo ascritto il
salvataggio del pastore nella generazione del deserto ma anche il
salvataggio dei figli d’Israele ai tempi di Mordechài ed Ester.
L’Otzar Hamidrashim menziona che Mordechài era uno dei suoi
discendenti.
Si può suggerire che in questo midràsh si nasconde
un’altra idea. Bityà educò Moshè Rabbènu a comportarsi in modo
regale. Crescendo nel palazzo del Faraone, Moshè vide come
funziona il palazzo del Re della più importante potenza mondiale
e ne imparò l’etichetta di corte.
Uno dei pericoli della monarchia è quello di pensare che
tutto dipende da essa e dal suo successo. Il monarca può arrivare
a credere che una rivolta contro la monarchia sia impossibile. E
invece quando una monarchia è basata sulla malvagità e sulla
distorsione della legge, la ribellione è d’obbligo al fine di
restaurare la giustizia e l’onestà.
D’altra parte vi è un altro errore nel quale un popolo può
incorrere: il popolo può pensare che bisogna seguire la
maggioranza. La Torà ha insegnato invece di “non seguire la
maggioranza ... in modo da torcere il diritto” (Shemòt, 23:2).
Calèv si trovò davanti a questo dilemma: da una parte si
trovava tutto il popolo d’Israele che piangeva e rifiutava di
andare verso la Terra Promessa. A capo di questa comunità non
vi erano persone da poco, ma capi dei figli d’Israele tornati dalla
loro importante missione e che avevano parlato in modo negativo
della buona terra. Chi poteva avere il coraggio di opporsi a tutti
e affermare ad alta voce “Fermatevi”?
Questa persona fu Calèv e da lui impariamo che ci sono
circostanze nelle quali è necessario prendere una posizione e non
seguire le opinioni degli altri, non farsi impressionare dal pianto
del popolo e anzi insistere che proprio andando controcorrente il
popolo verrà salvato. Quando ci sono coloro che non vogliono
osservare i comandamenti del Signore, la vera salvezza che porta
all’unità del popolo d’Israele consiste nell’andare controcorrente,
anche se è necessario farlo contro la maggioranza.
Non per nulla il Midràsh racconta che Mordechài era
discendente di Calèv e di Bityà. Nell’atto di Mordechài si unirono
le due caratteristiche. Quando il Re decretò di promuovere
Haman, Mordechài avrebbe potuto allontanarsi dalla porta del
palazzo reale ed evitare un conflitto che avrebbe potuto mettere
in pericolo tutto il popolo d’Israele. Mordechài non solo commise
un atto di insubordinazione nei confronti del Re, ma anche
protestò nei confronti dei correligionari che parteciparono al
banchetto offerto dal malvagio re Assuero. E fu proprio questa
sua presa di posizione che salvò il popolo e ci diede quella grande
dimostrazione di unità che avvenne a Purim.
Bityà e il mondo a venire
Nel Midràsh, Bityà viene anche descritta come una dei pochi eletti
che entrarono da vivi nel Gan Eden: Sèrach, la figlia di Asher;
Bityà, la figlia di Faraone; Chiram, Re di Tiro; ‘Eved Melekh, il
cushita; Eli’èzer, il servo di Abramo; il nipote di R. Yehudà ha-
Nassì, e Ya’betz. E c’è chi aggiunge anche R. Yehoshùa’ ben Levi
(Kallà Rabbati, 3:23).
Il motivo per cui proprio Bityà meritò questa grande
ricompensa viene spiegato sempre nello stesso midràsh: “Il Santo
Benedetto disse: dal momento che costei ha portato salvezza ad
Israele e la loro uscita verso la vita, le allungo la vita. Ho fatto un
patto con i vostri padri ... e così ripago costei che ha abbandonato
il regno del padre e si è aggregata a loro”. Così Bityà non assaporì
la morte.
È difficile capire il profondo significato di questo midràsh,
tuttavia forse lo si può spiegare almeno in parte. Coloro di cui si
dice che entrarono in vita nel Gan Eden sono tutte figure
marginali. Tuttavia furono proprio loro che funsero da legame
quando era più necessario. Il passaggio da un mondo all’altro sia
spirituale sia fisico è accompagnato da un penoso processo di
distacco.
Il distacco strappa la persona e la lascia con delle cicatrici.
E proprio qui arrivano queste persone marginali e addolciscono il
passaggio. Bityà figlia di Faraone diede a Moshè la possibilità di
imparare il cerimoniale nel palazzo del Faraone e questo lo aiutò
successivamente a guidare il popolo d’Israele. Sèrach la figlia di
Asher5 ci collegò alla generazione dei patriarchi in modo che non
perdemmo il contatto con loro; Chiram, Re di Tiro ci diede il know
how dell’ingegneria edile con la quale fu costruito il Bet Ha-
Miqdàsh. Coloro che sanno creare dei legami tra mondi così
diversi sono anche in grado di creare il collegamento tra questo
mondo e il mondo a venire. Questo è forse il significato del
midràsh che racconta che Bityà meritò di entrare da viva nel Gan
Eden.
Conclusione
In questo articolo è stato fatto un tentativo di analizzare la figura
di Bityà in alcuni momenti della sua vita. Dal suo proselitismo,
quando fece la difficile scelta di salvare Moshè, all’educazione
particolare che gli diede, alla continuazione della sua vita da
israelita a tutti gli effetti, e infine al matrimonio con Calèv fino
alla fine della sua gloriosa vita.
Non c’è dubbio che si potrebbe scrivere ancora di più sulla
figura di questa grande signora, che i Maestri contano come una
delle ventidue donne per bene menzionate nelle Scritture. In
questo articolo abbiamo cercato di offrirne un primo assaggio.
NOTE:
1 Amos Rabello è figlio di Alfredo Mordechai Rabello, ed è Rav
educatore nella Yeshivà per giovani a Haresha. L’articolo originale in ebraico
è stato tradotto dalla redazione.
2 Se la figlia del Faraone non avesse salvato Moshè, la Provvidenza
avrebbe certamente fatto in modo di salvarlo in altro modo. Tuttavia in questo
modo avvenne che Moshè fu educato proprio nel palazzo del Faraone (n.d.r.).
3 Nella parashàdi We-Zot Ha-Berakhà, Moshè benedice Reuvèn, il
primogenito di Ya’aqòv, con le parole: viva Reuvèn e non muoia (n.d.r.).
4 Va notato che con questo non si intende affatto suggerire che la
caratteristica di essere giusto sia totalmente separata da quella di perseguire
giustizia. Infatti i Maestri ci insegnano che anche Yochèved, la madre biologica
di Moshè, era una delle due ostetriche alle quali il Faraone diede ordine di
uccidere i neonati maschi, e fece di tutto per aiutare le donne d’Israele a
partorire rischiando la vita per salvare i neonati e le madri. In generale non è
possibile essere giusti senza perseguire giustizia e viceversa. In ogni modo è
possibile sottolineare la presenza delle caratteristiche che risaltavano in Bityà
che commise un supremo atto di ribellione nei confronti del padre. La forza di
ribellarsi alle regole della maggiore potenza dell’epoca risalta particolarmente
nella persona di Bityà.
5 Sèrach visse così a lungo che fu tra coloro che scesero in Egitto e
anche tra coloro che ne uscirono (n.d.r.).