Verso la fine della Amidà
Rav Gérard Touaty
Verso la fine della ‘Amidà, colonna vertebrale della preghiera ebraica, leggiamo una frasetta alla quale non prestiamo che scarsa attenzione. Tuttavia, a ben guardare, queste poche parole comportano una delle idee più essenziali del giudaismo, idea della quale possiamo leggere un eco all’inizio della parashà di Tetzavé.
Possa la mia persona non essere altro che polvere davanti a tutti gli uomini.” “Apri il mio cuore alla tua Torà….
Queste frasi che a prima vista non hanno alcun legame tra loro, concludono appunto la ‘Amidà. Ma la loro apparente semplicità sparisce se si cerca di capire il loro accostamento. Perché, se strutturando la tefillà i Maestri hanno posto queste due frasi una accanto all’altra, dobbiamo allora leggerle come un unico concetto.
Un autentico saggio
Aprire il proprio cuore alla Torà, ossia comprenderla nella sua autenticità, non è cosa da poco. Ciò esige uno sforzo notevole, ma non è uno sforzo intellettuale. Non è questo che ci si attende da un Ebreo, perché, per comprenderla, anche un non Ebreo può arrivarci.
Aprirsi alla Torà non è possibile se non ci si è preventivamente sbarazzati di ogni traccia di orgoglio che possa impregnare la nostra riflessione e i nostri sentimenti. In altri termini bisogna far pulizia internamente affinché la Shekhinà possa, per così dire, insediarsi (in noi) e farci beneficiare della Sua saggezza.
Quest’idea è notevole e quasi rivoluzionaria: per l’Occidente, il saggio è colui che comprende; che valorizza il suo “Io” al massimo e che utilizza tutte le sue capacità cerebrali per trovare la verità. Ma questa sarà una verità falsata perché, in quanto umana, sarà soggettiva e parziale.
Un Ebreo deve sì riflettere, ma la sua riflessione giungerà a concludere che la verità divina è infinita e che essa non sarà raggiunta (almeno in parte) che lasciando la Shekhinà insediarsi in seno al suo intelletto e ai suoi sentimenti. Una persona umile accetta le opinioni degli altri, le confronta con le sue e accetta l’idea di potersi sbagliare. Questa disposizione di spirito gli aprirà una vera comprensione della Torà.
Cancellarsi
Si ritrova questa idea all’inizio della parashà di Tetzavè nella quale l’Eterno chiede a Moshè che i Figli di Israele prendano per lui “un olio puro di oliva spremuta per il Lume”. Il senso letterale evoca la fabbricazione dell’olio che servirà da combustibile per la Menorà.
Ma il simbolismo descritto qui rimanda ai concetti richiamati sopra: l’olio, come è noto, esprime la nozione di saggezza. Questa non potrà veramente rischiarare se l’uomo non avrà schiacciato il suo “Io”, come l’oliva spremuta per il Lume!
Si può allora capire il commento del Ba’al Haturìm che scrive che dalla nascita di Moshè fino al termine della Torà, la parashà di Tetzavè è l’unica nella quale il suo nome non è menzionato.
Perché, dopo la trasgressione del Vitello d’oro, Moshè preferì esser cancellato dalla Torà piuttosto che assistere alla sparizione del suo popolo. E anche se così non avvenne, questa sua volontà si realizzò (in parte) poiché il suo nome non appare in questa parashà.
Ecco il medesimo concetto che occupa uno spazio essenziale.
Così, un capo del popolo ebraico si cancellerà per dare la vita.
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