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TRA DIPLOMAZIA E DIALOGO


Donato Grosser


Nel 1964, Gerard Wolpe, che era rabbi di una comunità ebraica conservative nella città di Harrisburg in Pennsylvania, invitò un ministro protestante nella sua sinagoga a presenziare alle preghiere del venerdì sera e a partecipare a una successiva discussione su argomenti religiosi. Questo fu uno dei primi episodi di “dialogo religioso” tra ebrei e cristiani negli Stati Uniti.


Questo fenomeno era nuovo. Nel passato, i rapporti tra rabbini e preti cattolici o ministri protestanti erano stati limitati principalmente a questioni che riguardavano la protezione della comunità ebraica e dei suoi membri. Vi sono abbondanti aneddoti fin dai tempi di Rashì nell’XI secolo E.V. nei quali si parla di rapporti tra i nostri Chakhamìm e personalità della Chiesa. Questi rapporti erano di carattere, se cosi si può dire, diplomatico. Discussioni su argomenti religiosi erano di carattere poco amichevole: gli esempi più noti sono le dispute religiose a Barcellona e a Tortosa, il cui scopo era di cercare di convincere gli ebrei della verità del cristianesimo. Inoltre, il carattere missionario delle varie chiese cristiane e le accuse rivolte agli ebrei di essere i responsabili della morte del loro messia rendevano impossibile l’avvicinamento tra le due parti.


Fino al secolo scorso, se era necessario risolvere qualche problema tramite l’assistenza di qualche prete o vescovo, i rabbanìm (rabbini) li visitavano senza pubblicizzare tali incontri. Così, per esempio, dopo la Seconda Guerra Mondiale, Rav Izchak Herzog, rabbino capo dell’Ishuv (insediamento) ashkenazita in Eretz Israel, andò a incontrare Papa Pio XII in Vaticano per cercare di ottenere informazioni su bambini ebrei che durante la guerra avevano trovato rifugio in conventi e presso famiglie cristiane.

La situazione cambiò gradualmente con il decadimento dell’importanza della religione e, nella prima metà degli anni Sessanta, con la dichiarazione del Concilio Vaticano Secondo che affermava che gli ebrei di oggi non avevano responsabilità per quello che avvenne nel passato. Questo non significava una rinuncia alla conversione degli ebrei. La posizione della Chiesa cattolica fu già spiegata in modo esplicito dal reverendo William J. McCormack, direttore nazionale della Society for the Propagation of the Faith di New York, che in una lettera al New York Times dell’8 gennaio 1996 scrisse quanto segue: «The Second Vatican Council states that ?the church ... is by its very nature missionary” and that the obligation to spread the faith is incumbent on all members.» (Il Concilio Vaticano Secondo afferma che la Chiesa per sua natura è missionaria e che l’obbligo di diffondere la fede incombe su tutti i suoi membri).

Negli Stati Uniti i primi a mostrare entusiasmo per la dichiarazione conciliare furono i rabbis dei movimenti Reform e Conservative. Il cosiddetto “dialogo ebraico-cristiano” generò costernazione negli ambienti degli ebrei fedeli alla Torà e alcuni tra i più grandi decisori halakhici e talmidè chakhamìm (Maestri di Torà) della nostra epoca presero posizioni chiaramente contrarie a tali dialoghi, per timore che anche tra gli ebrei che osservavano la Torà ve ne fossero alcuni che avrebbero seguito l’esempio dei Reform e Conservative.


LA PRESA DI POSIZIONE DI RAV SOLOVEITCHIK

Il primo a prendere una posizione pubblica sull’argomento fu Rav Yosef Dov Soloveitchik (1903-1993), Rav di Boston e Rosh Yeshivà della Yeshivà Yitzchak Elchanan di New York e l’autorità nel campo della Halakhà del Rabbinical Council of America, la maggiore associazione di rabbini ortodossi negli Stati Uniti. In una sua lezione (parte della quale fu pubblicata in Masoret Harav, p. 162) Rav Soloveitchik sottolineò le differenze tra ebrei e gentili che rendevano impossibile un linguaggio comune su argomenti religiosi con queste parole:

L’ebreo moderno è integrato nella società delle genti, nell’economia, nella politica, nella cultura e nella vita sociale. Vivendo tra i gentili condividiamo l’esperienza storica universale e i problemi dell’umanità sono anche nostri. La fame nel mondo, le malattie, le guerre, le oppressioni, il materialismo, il permissivismo, l’inquinamento dell’ambiente sono problemi che la storia ha posto non solo di fronte alla comunità delle genti ma anche alla nostra “comunità del patto”. E l’ebreo come membro dell’umanità ha il dovere di contribuire al bene generale della società. Qual è quindi la nostra posizione rispetto alla civiltà moderna, rispetto alle scienze, alla cultura occidentale, rispetto ai paesi nei quali viviamo? La risposta è inclusa nelle parole “Sono uno straniero e un abitante con voi”[Bereshìt-Genesi, 23:4]. L’ebreo afferma: “Sono certamente un residente, sono uno di voi; mi occupo di affari come fate voi; parlo la vostra lingua; partecipo completamente alle vostre istituzioni socio-economiche. Tuttavia nello stesso tempo sono uno sconosciuto e per certi aspetti uno straniero, perché appartengo a un mondo particolare che a voi è completamente estraneo. È un mondo nel quale io vivo insieme con il Creatore. È un mondo popolato da caratteri a voi ignoti, con una tradizione che non capite, con valori spirituali che ai vostri occhi appaiono poco pratici... È un mondo pieno di altari e di sacrifici, un mondo di Torà, di benevolenza, di santità e di purità. Voi vivete in modo differente, pregate in modo differente. La vostra concezione di carità è diversa dalla nostra; i vostri giorni di riposo sono diversi dai nostri e cosi via. In queste cose sono un straniero nel vostro mondo e voi siete degli stranieri nel mio. La sepoltura ebraica è uno degli elementi rispetto ai quali siamo estranei e stranieri l’uno con l’altro. Quando un ebreo muore viene sepolto in modo diverso. Un ebreo richiede un suo cimitero, una tomba ebraica”.

Rav Soloveitchik parlò dell’impossibilità di un linguaggio comune su argomenti religiosi in un saggio fondamentale con argomentazioni di carattere filosofico intitolato “Confrontation”, pubblicato nel 1964 (in Tradition, vol 6:2). In questo saggio egli scrisse in modo esplicito che non era possibile alcun dialogo con altre religioni e che discussioni o incontri su argomenti religiosi erano vietati:

Alla luce di questa analisi sarebbe ragionevole affermare che in ogni confronto [tra la comunità ebraica e la cultura della maggioranza] dobbiamo insistere che vengano rispettate quattro condizioni di base al fine di poter proteggere la nostra individualità e libertà di azione. [Una di queste è che]... il linguaggio con il quale si esprime la molteplice esperienza religiosa non si presta a standardizzazione o universalizzazione. La parola di fede riflette l’intimo, personale e paradossalmente inesprimibile desiderio dell’individuo ... verso il suo Creatore. Riflette il carattere e la singolarità dell’atto di fede di una particolare comunità che è totalmente incomprensibile alle persone di un’altra comunità di fede. Pertanto è importante che il linguaggio religioso o teologico non venga usato come mezzo di comunicazione tra due comunità di fede i cui modi di esprimersi sono unici come lo sono le rispettive esperienze religiose. Il confronto deve avvenire non a livello teologico ma su questioni ordinarie di tipo sociale e umanitario. In questo modo tutti noi parliamo il linguaggio universale dell’uomo moderno”.

L’OPINIONE DI RAV REICHMAN

Nel 2004 Rav Hershel Reichman, un Rosh Yeshivà alla Yeshivà Itzchak Elchanan di New York e uno dei più illustri discepoli di Rav Soloveitchik, con il quale aveva studiato per venticinque anni, a seguito della visita di sette cardinali in yeshivà espresse la sua opinione in una lettera successivamente intitolata “The Cardinals’ Visit, Thought of a Rosh Yeshiva”.


Egli iniziò premettendo che la Torà proibisce il cristianesimo agli ebrei in quanto culto estraneo (‘Avodà Zarà). Egli aggiunse che nonostante alcune opinioni che sostengano che per i gentili la fede cristiana non sia considerata ‘Avodà Zarà, lo è certamente per gli ebrei. Agli ebrei è proibito accettare le credenze e le pratiche dei cristiani. Esse violano i principi fondamentali della Torà. Infatti affermiamo ogni giorno questi principi quando, recitando lo Shemà’, diciamo “l’Eterno è uno”.

Rav Reichman scrisse anche che il pesàq halakhà (decisione halakhica) di Rav Soloveitchik fu scritto nel 1964 proprio a seguito del Concilio Vaticano Secondo. Rav Soloveitchik affermò che Il dialogo religioso tra ebrei e cristiani era proibito. Erano permessi contatti concernenti questioni umane e sociali e in particolare l’antisemitismo. Rav Reichman aggiunse che nei quarant’anni che erano passati dal pesàq di Rav Soloveichik non erano avvenuti cambiamenti che giustificassero una revisione del pesàq stesso.


Stabilito il fatto che il dialogo religioso era stato proibito, restava da definire cosa costituisse “dialogo religioso”. Rav Reichman scrisse che le visite di preti in una yeshivà per vedere come si studia Torà nel Bet Midràsh erano un evento religioso e così pure le visite di rabbini in chiesa per partecipare a lezioni religiose dei cristiani. Rav Reichman scrisse che secondo la sua opinione il termine “dialogo religioso” usato da Rav Soloveitchik comprendeva non solo discussioni di teologia cristiana, ma anche discussioni di Torà. Egli ricordò che Rav Soloveitchik disse più volte che anche “Dèrech Halimmùd”, il modo in cui noi ebrei studiamo Torà, fa parte della Torà. Pertanto tutti questi tipi di discussioni devono essere evitati.


Rav Reichman aggiunse che la Chiesa fin dall’inizio ebbe come programma la conversione degli ebrei e la sostituzione dell’ebraismo con il cristianesimo e a tal fine durante i secoli usò due metodi: la spada e il dialogo. Quanto alla spada, “Milioni di ebrei morirono uccisi dalla spada di cristiani, durante le Crociate, con l’Inquisizione, nei massacri di Chmielnicki e durante l’Olocausto. Molte migliaia di ebrei si convertirono a seguito del dialogo ebraico-cristiano o di attività missionarie come avvenne in Spagna prima dell’Inquisizione e poi nel diciannovesimo e ventesimo secolo in Europa Occidentale e in America”. E quanto al dialogo “È usato per manipolare gli ebrei. Il primo passo è quello di parlare. Essi sperano che gli ebrei facciano dei compromessi con i loro principi e alla fine che accettino in qualche modo la divinità del loro messia”. E inoltre: “... non dobbiamo ingenuamente considerare roba da poco il pericolo della confusione [religiosa che il dialogo può causare] nei nostri circoli ortodossi”. Infine: “Desidero sottolineare quello che sentii da Rav Soloveitchik: riguardo alla Chiesa Cattolica non dobbiamo usare il detto di giudicare favorevolmente ogni persona; dobbiamo rispettarli ma rimanere sospettosi. I milioni di martiri ebrei non chiedono meno da noi”. Rav Reichman concluse scrivendo: “Questi tipi di incontri devono rimanere privati dove la prudente decisione halakhica di Rav Soloveitchik può essere effettivamente rispettata, come lo fu in generale nel passato, quando i dignitari della Torà incontrarono i leader della Chiesa nelle situazioni che lo richiedevano”.


Citando le parole di Rav Soloveitchik, Rav Avrohom Gordimer, membro dell’Executive Committee del Rabbinical Council of America, in un articolo scritto nel febbraio 2007 per il giornale Yated Neeman sottolineò che con il saggio Confrontation Rav Soloveitchik proibì il dialogo interconfessionale. E, data la motivazione della proibizione, Rav Gordimer sostiene che la proibizione vale per tutti tempi.

LE DECISIONI HALAKHICHE DI RAV MOSHE FEINSTEIN

Nel 1967, Dr. Bernard Lander, fondatore del Touro College, fu invitato a un convegno accademico con preti cattolici e ministri protestanti. A seguito di contatti con Rav Moshè Feinstein (1895-1986), uno dei preminenti poseqim della nostra epoca, quest’ultimo gli disse che era proibito andare a incontri del genere con religiosi cristiani. Nel suo responso, pubblicato in Iggheròt Moshè (YD III, 43, p. 278), Rav Feinstein scrisse che anche se il discorso che Dr. Lander avrebbe dovuto fare era di argomento puramente accademico “È chiaro ed evidente che si incorre nella proibizione di cose che appartengono a culti estranei (avizaraihu de-avodà zarà)”.


Egli spiegò che questo tipo di incontri faceva parte della nuova posizione della Chiesa che si era resa conto che era più facile attrarre gli ebrei con il dialogo che con la forza. Rav Feinstein aggiunse che Dr. Lander non doveva neppure partecipare all’incontro inviando il testo della sua conferenza “perché ogni incontro con loro è un supporto alla loro strategia...”. Infine egli definì i leader ebrei, “chiunque essi siano”, che partecipano a tali incontri “dei mesitim umaddichim (traviatori) di tutto Israele”, aggiungendo che se in tutti questi anni i missionari cattolici hanno avuto un successo limitato ora, per amor del Cielo, per mezzo di questi rabbanim senza senno (chasrè da’at) che vogliono associarsi con loro è possibile che molti di più abbandonino l’ebraismo; e riguardo ai traviatori essi non possono essere giustificati con la motivazione che non avevano tale intenzione ...”.


In un’altra lettera scritta a Rav Soloveitchik (ibid., ) Rav Feinstein reiterò la sua posizione che “ogni associazione con loro anche su argomenti accademici è cosa proibita in ogni tempo e a maggior ragione in questo periodo ... in cui si vede che i giornali vantano il fatto che si è arrivati a un’equivalenza (shivui) delle fedi e a pregare insieme e altre cose simili“.


L’OPINIONE DEL REBBE DI LUBAVITCH

L’opinione del Rebbe di Lubavitch relativa al dialogo interreligioso venne resa pubblica tramite una lettera di risposta a una persona che gli chiese quale doveva essere la posizione ebraica nei confronti di questo nuovo fenomeno che “riceveva supporto in vari ambienti ebraici e non ebraici”.

Il Rebbe rispose che era sorpreso che lo scrivente avesse dei dubbi sull’argomento, scrivendo che:


Chiunque abbia delle minime conoscenze della storia del nostro popolo sa con quale riluttanza gli ebrei in tutti i periodi ingaggiarono discussioni religiose con dei non ebrei. I motivi erano validi, oltre al motivo fondamentale che l’ebraismo non aspira ad attirare i gentili e d’altra parte gli ebrei non sono disposti ad esporsi al fanatismo dei missionari di altre religioni.

ll Rebbe aggiunse che:

Riguardo a questo argomento ogni generazione ha i suoi problemi particolari. Per esempio uno dei sintomi particolari dei nostri tempi per cui la conduzione di cosiddetti “dialoghi” si trasforma in un fenomeno oltremodo negativo è la confusione e lo smarrimento così comuni e in particolare tra le giovani generazioni. Uno dei sintomi dai quali si riconosce questo smarrimento è il declino dei valori; in certi casi sono stati oltrepassati tutti i limiti ben definiti che esistevano nel passato in diversi settori della vita di ogni giorno. Dall’abbassamento o anche dalla eliminazione totale della separazione [mechitzà] nella sinagoga si è slittato velocemente verso l’eliminazione di tutti i limiti di etica, morale e anche della normale buona creanza. In diverse aree questo ha portato a un perversione totale dei valori al punto di far ricordare il lamento del profeta (Isaia, 5:20): Ahimè a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”.


E riguardo alla questione del dialogo il Rebbe osservò:


Uno dei risultati della situazione sopra descritta è la percezione difettosa esistente presso vari gruppi nei confronti del movimento cosiddetto “inter-religioso”. Il concetto di “fratellanza tra i popoli” è fondamentalmente positivo fino a quando è limitato al contesto del commercio, alle istituzioni filantropiche e ad altri argomenti civili ed economici della società... Tuttavia la pretesa da parte dei credenti di una religione di spiegare la loro fede e le loro usanze religiose a persone di altre religioni e di esporsi a spiegazioni del genere indica una comprensione errata del concetto di “fratellanza”. Purtroppo queste attività inter-religiose hanno causato nel caso migliore un aumento della confusione e nel caso peggiore sono stati uno strumento nelle mani di missionari fanatici di quelle religioni che vedono come “missione” la diffusione della loro fede tra persone di altre religioni. L’aumento ripido nel numero di matrimoni misti ha molte cause. Tuttavia non c’è dubbio che uno dei fattori importanti è il movimento “inter-religioso” o “dialogo” (per usare un eufemismo) nel cui contesto i sacerdoti di una religione vengono invitati a predicare dai pulpiti di altre religioni. Non è difficile rendersi conto dell’effetto distruttivo di questo fenomeno nei confronti di quei giovani, e anche nei confronti dei loro genitori, il cui orientamento e la fedeltà alla loro fede rasentano il minimo assoluto e si avvicinano allo zero...


Il Rebbe concluse affermando che “è giunto il momento di concentrare i nostri sforzi nel rafforzamento della fede tra le persone del nostro popolo e invece di discussioni inter-religiose di porre l’accento sul dialogo con la nostra gioventù smarrita e, con nostra vergogna e dolore, anche con gli adulti”.


In sostanza il messaggio del Rebbe era che con la situazione tragica per via dell’assimilazione, gli incontri, gli abbracci, le preghiere comuni con dei preti, a parte le gravissime trasgressioni halakhiche, sono segnali che tra noi e loro non c’è molta differenza e che gli effetti di tali azioni sono distruttivi.


CONSIDERAZIONI HALAKHICHE NEI CONTATTI INTERRELIGIOSI


A parte le opinioni espresse dalle maggiori autorità della nostra epoca riguardo al “dialogo”, vi sono anche delle considerazioni halakhiche su varie attività che vengono svolte nel quadro di questi incontri. Alcune di queste attività sono state proibite nei responsi dei maggiori poseqìm, indipendentemente che abbiano luogo nel quadro del “dialogo” o meno.


Un responso comprensivo fu quello del decano dei decisori halakhici in Eretz Israel, Rav Shmuel Halevi Wosner di Benè Beràq (Shèvet Halevi, II, 59). Il richiedente, il signor Israel Kraus di Lucerna, scrisse a Rav Wosner che un certo individuo facendo grande pubblicità aveva lanciato un programma di incontri tra ebrei e non ebrei invitando gruppi di non ebrei nella sinagoga ad ascoltare i suoi discorsi su argomenti ebraici e anche gruppi di preti di Shabbàt durante la tefillà. Il signor Kraus chiedeva se era permesso parlare delle leggi e delle usanze ebraiche ai non ebrei; se era permesso studiare la Bibbia da insegnanti non ebrei; e se era permesso pregare insieme con dei non ebrei nella sinagoga.

Rav Wosner, citando responsi precedenti di R. Shelomò Luria e di R. Yesha’yahu Horowitz e altre fonti, rispose che era proibito insegnare Torà ai non ebrei a meno che la cosa fosse stata loro imposta, come nel caso del decreto dell’imperatore romano citato nel Talmud babilonese (trattato Bavà Qamà, 38a). Egli aggiunse che già R. Yosef Shelomò Del Medigo di Candia nella sua opera Metzarèf la-Chokhmà aveva scritto che “il declino dell’ebraismo in Italia iniziò con lo studio in comune di ebrei e preti”. Sullo stesso argomento Rav 'Ovadyà Yosèf (Yabìa' Omer, Y.D., 17) afferma che è proibito insegnare la Torà sia scritta che orale a non ebrei; è tuttavia permesso rispondere a domande di Torà a non ebrei solo quando la mancanza di una risposta potrebbe avere conseguenze negative sull'ebraismo. È anche permesso insegnare le regole che derivano dalla sette mitzwòt dei Benè Nòach, e anche la lingua e la grammatica ebraica. Riguardo allo studio delle sacre scritture presso non ebrei, R. Wosner rispose che la cosa è assolutamente proibita, menzionando la halakhà che proibisce di studiare Torà perfino da un Rav che non è rispettabile (hagun), come scritto in modo esplicito nello Shulchàn ‘Arùkh (YD, 179 e 246).

Quanto alle preghiere in sinagoga con dei preti R. Wosner rispose che la cosa era proibita citando varie fonti103. Rav Wosner aggiunse che questi avvicinamenti tra ‘Ovdè Avodà Zarà (servitori di culti estranei) ed israeliti “sono consigli dell’istinto malvagio e guai a chi si occupa e si fa intermediario di queste cose”


Per chiarire ulteriormente la questione, alcuni mesi fa ho scritto a Rav David Feinstein, figlio di Rav Moshè Feinstein e suo successore come Rosh Yeshivà della Yeshivat Tiferet Yerushalaim nel Lower East Side di New York e uno dei preminenti poseqìm americani, ponendo le seguenti domande:


  1. È permesso dare lezioni al clero cattolico?


  1. È permesso recitare i Tehillìm insieme con il clero cattolico?


  1. È permesso ascoltare lezioni date da preti cattolici?


Ricevetti risposta telefonica tramite il suo talmid Rav Binyamin Schubert che mi disse: “Il Rosh Yeshivà ha risposto che niente di questo è permesso”. Due settimane più tardi incontrai di persona R. David Feinstein e mi confermò che è proibito in qualunque modo pregare insieme con dei preti come già scrisse suo padre nella succitata lettera a Rav Soloveitchik.

Ho posto le stesse domande ad alcuni dei più importanti poseqìm americani, R. Feivel Cohen, R. Israel Belsky e R. Herschel Schachter e la risposta è stata la stessa. A questa domanda R. Menachem Genack, uno dei principali discepoli di Rav Soloveitchik e direttore generale della Kosher Division della Orthodox Union, mi ha detto che R. Soloveitchik era molto contrario a queste cose (”The Rav [Soloveitchik] was very much against this”). Alla stessa domanda Rav Yosef Efrati di Gerusalemme, discepolo e braccio destro di Rav Yosef Shalom Elyashiv, e lui stesso un grande Talmìd Chakhàm, ha risposto che “riguardo a questi argomenti [Rav Elyashiv] condivideva l’opinione dei grandi poseqìm negli Stati Uniti”.


CONCLUSIONE

Da quanto scritto è chiaro che nei rapporti diplomatici con il clero cattolico o protestante sia necessario stare molto attenti a non oltrepassare il limiti del lecito e ad associarsi ad attività in comune proibite dai poseqìm. Le autorità menzionate nella prima parte di questo scritto erano i grandi leader della loro generazione (Ghedolè Ha-Dor) che non appena il fenomeno del “dialogo” venne alla luce seppero guardare lontano e lo proibirono. Non si possono ignorare le opinioni delle più eminenti autorità halakhiche e morali della nostra epoca senza fare del male a sé stessi e a tutta la comunità ebraica.


* * *


Dopo l’incontro di quel venerdì sera dell’anno 1964 organizzato da Rabbi Wolpe, nella sua sinagoga conservative, un giovane membro della congregation che aveva appena raggiunto l’età del bar mitzwà tornando a casa chiese alla madre, se il rabbi mostrava una tale vicinanza ideologica con un ministro cristiano, per quale motivo era proibito sposare una ragazza cristiana. La madre prese il telefono e chiamò rabbi Wolpe dicendogli: “Ha visto cosa ha fatto?”.




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