SULL’INSEGNAMENTO DI ALFONSO PACIFICI - 3a parte
Gad Sarfatti z”l
LA SUA FIORENTINITÀ
Prima di continuare devo ricordare anche un altro aspetto della personalità del nostro Maestro: le caratteristiche che derivavano dalla sua fiorentinità.
A qualcuno questo aspetto può apparire un fattore di scarsa importanza. Invece era parte integrale della sua personalità. “ Firenze mi ha dato il suo humour” egli scrisse, “la sua estrosità bizzarra, lo spirito di contraddizione, l’amore del paradosso, l’estetismo e anche quella certa pigrizia o, meglio, quel qualche cosa che sembra pigrizia ma che non lo è affatto, e quel qualche cosa che sembra scetticismo, a volte perfino leggermente cinico, mentre non è affatto scetticismo, due cose che un non-fiorentino molto difficilmente riuscirà mai a capire e quindi a tollerare o apprezzare proprio fino in fondo”16.
La fiamma della fede e la devozione illimitata alla fede insieme con un che di scetticismo e di pigrizia? Come fanno queste caratteristiche a coesistere nello stesso paiolo? Forse questo aspetto leggero della sua personalità era il necessario rilassamento di quella grande tensione spirituale alla quale era spesso soggetto.
È un fatto che queste due caratteristiche diedero un sapore particolare ai suoi discorsi, così come me ne resi conto di persona. E questi discorsi si nutrivano alternativamente di scetticismo e di fede, e né l’uno né l’altra ne soffrivano, come “il fuoco che vampava all’interno della grandine17”, una cosa che sanno fare solo i sapienti e i saggi.
LA SUA LOGICA
Non sono in grado di ripetere le sue conversazioni e di trasmettere i loro contenuti, però mi ricordo bene come si svolgevano. Esordiva dicendo: “Se sei d’accordo con me su questo presupposto, devi essere d’accordo che dal punto di vista logico ne scaturisce un secondo e dal secondo un terzo. e questi presupposti implicano
un’azione; e pertanto perché rifiuti di fare quello che devi fare? Perché permetti alla paura, al timore delle opinioni della maggioranza, alla mancanza di visione, alla piccolezza di fede, a considerazioni meschine, di impedire di elevarti come devi”?
Così ti sentivi, come disse uno dei grandi scrittori italiani, come un uccellino tra gli artigli di un’aquila, che viene portato in alto in un territorio sconosciuto, dove non ne ha mai respirato l’aria. E ti trovavi li, sospeso, senza sapere se salvarti con un’obiezione senza una base logica oppure dover accettare le conclusioni logiche senza aver la forza di metterle in pratica. Qualche volta, tra queste tribolazioni, ti sentivi di continuare le parole dello scrittore che abbiamo menzionato pensando: che uomo santo, ma che seccatore!
Non c’è bisogno di dire che quello che il nostro Maestro richiedeva dagli altri lo richiedeva sette volte tanto da sé stesso e cercava, investigava e frugava anche contro sé stesso e in verità non vi erano considerazioni, qualsiasi esse fossero, che potevano limitarne le azioni quando la sua fede e la sua coscienza gli dettavano di farle.
LA SUA ATTIVITÀ IN ITALIA
L’attività del nostro Maestro in Italia fu molteplice. Fondò la
rivista Israel che utilizzò come portavoce delle sue idee, tenne conversazioni private e diede discorsi pubblici, raccolse gruppi di compagni e di discepoli, scrisse articoli e libri, abbattè barriere, ignorò convenzioni, scosse i compromessi di tutto riposo dei suoi contemporanei, porto luce nell’oscurità.
È chiaro che le sue altre occupazioni dalle quali avrebbe dovuto derivare un reddito, quelle di giudice e di avvocato, ricevettero da parte sua ben poca attenzione.
Fu attivo nell’organizzione sionista, partecipò ai congressi e gli rimase sempre una grande simpatia nei confronti di Herzl. Una cosa questa che molti più tardi ebbero difficoltà di capire, perché nel mondo polarizzato e di vedute limitate in cui viviamo, in un mondo in cui ognuno vede il prossimo come se sia “con noi o con i nostri nemici18”, molti non riescono a capire come si possano apprezzare le elevate qualità personali di chi non condivide le nostre idee e di come sia possibile mantenere un dialogo con chi non appartiene alla nostra fazione.
E quanto alla domanda che viene posta di frequente, se il nostro Maestro era sionista, la risposta è semplice: se per Sionismo si intende una visione del mondo, la risposta è no. Se per Sionismo è il desiderio di tornare a Sion e di far ritornare gli altri, la risposta è certamente sì.
IN ERETZ ISRAEL
Il nostro Maestro fece l’alià in Eretz Israel nel 1934 con la famiglia e qui ebbe inizio il secondo capitolo della sua vita.
Ho menzionato prima che la sua opera Sintesi-Programma aveva dei punti deboli che il nostro Maestro anni più tardi volle correggere. In effetti si trattava di un solo punto debole. Abbiamo visto che il giovane Pacifici nel suo ritorno alla Torà, la trovò grazie alla sua intuizione, e le espressioni come, intuizione, analisi personale e simili occupano sempre una posizione centrale nei suoi insegnamenti. Tuttavia questa strada lo portò principalmente a negare definizioni errate e non ad affermare definizioni veritiere.
Il vecchio Pacifici nel criticare le idee del giovane Pacifici scrisse:
Chi mi leggeva e mi seguiva ... aveva imparato da me che la vita della Torà non è nessuna delle cose attualmente conosciute, ma che cosa di fatto sia la Torà o la vita secondo la Torà, non l’imparava; e non l’imparava perché in verità nemmeno io lo sapevo19.
Quando pubblicò per la seconda volta (nel 1957) il libro della sua gioventù, aggiunse una osservazione finale, che non nega le parti positive dell’opera (“Rimase soprattutto il generoso ardimento di aver visto e detto giusto: oggi non ci sono più mezze vie ... per forza d’inerzia non si può più andare avanti... o crearsi o morire20”). Tuttavia, nel concludere, sottolineò la principale mancanza della sua opera:
Quello che io non sapevo - e nessuno, purtroppo, me ne fece edotto - era che la mia prima necessità e il mio primo dovere era quello di mettermi a studiare, studiare Torà, per imparare davvero quelle cose di cui avevo avuto appena dei lampi d’intuizione. Se avessi fatto questo, avrei risparmiato pene a me stesso, avrei reso un servizio effettivo all’ideale che amavo, mi sarei salvato da quell’isolamento nel quale quell’errore iniziale di prospettiva mi aveva fatto entrare, misconoscendo quella che avrebbe dovuto essere la mia, la nostra vera direttiva: non vagheggiare di assurde voci nuove, ma riattaccarsi umilmente all’insegnamento arrivato per catena ininterrotta fino ai nostri giorni e in quello immettere, con l’aiuto del Cielo, la forza fresca di una convinzione sincera e di una sincera aspirazione all’alto e al grande21.
Alcuni anni dopo aggiunse che “Quella terribile mancanza” dello studio della Torà era per lui una pura e semplice ghezerà (decreto divino) dalla quale apparentemente non c’era possibilità di riscatto.
Queste gravi parole vanno analizzate attentamente perché sono la confessione di un cuore ferito. Secondo me questa è la tragedia del nostro Maestro, così come lui stesso la riconobbe e la descrisse , quella mancanza di studio della Torà che non riuscì mai a colmare. E se domandaste il perché, cosa fu che glielo impedì una volta che si rese conto che la Torà non si basa sull’intuizione ma sullo studio? Cosa gli impedì di sedersi al tavolo, di aprire un sèfer e di studiare? La risposta è che la sua natura e il suo carattere non glielo permisero.
Quando studiai nella yeshivà Merkàz Ha-Rav a Yerushalaim, il nostro Maestro voleva che fissassi con lui dei periodi di studio di Torà e cosi iniziammo. In effetti non so se nel corso di alcuni mesi studiammo più di una pagina o di un foglio: dopo aver letto una riga dal sèfer il nostro Maestro cominciava a collegare un’idea all’altra, un argomento all’altro, un concetto all’altro e s’involava. La Ghemarà rimaneva lì e noi partivamo per dove partivamo.
Non posso fare altro che portare l’esempio di un concetto che appare nelle halakhòt Issùr we-hetèr (regole del permeso e del proibito): “Dal momento che sta espellendo non è in grado di assorbire”. Il nostro Maestro era preso nella sua creatività, nella costruzione del suo sistema di pensiero, nella diffusione di quello che scaturiva dalla sua fonte e tutto questo lo impegnava talmente tanto che non gli permetteva di pensare a quello che era scritto davanti a lui, di captare le parole e di approfondirsi nel loro significato; dal momento che aveva la capacità di essere una fonte perenne, gli fu impedito di essere un pozzo intonacato 22.
Di questo non c’è da meravigliarsi, nessuno riesce ad avere tutto nella vita, l’uomo completo non esiste neppure tra i grandi. Tuttavia la forza dell’immaginazione, l’intuizione sulla quale costruì la sua visione del mondo e con la quale aveva raccolto discepoli tra i giovani italiani non gli servì quando si trovò a confronto con la comunità ebraica ortodossa in Eretz Israel, le cui basi erano il Talmùd e i posqìm (decisori di Halakhà). Pertanto quando riuscì a venire a contatto con il mondo di coloro che osservavano la Torà e le mitzwòt in Eretz Israel, un mondo al quale anelava e che avrebbe dovuto essere il suo ambiente naturale, proprio questo mondo gli rimase in parte estraneo e lui rimase estraneo a questo mondo.
I talmidè chakhamìm (i saggi di Torà) d’Eretz Israel onorarono il nostro Maestro e anche lo ebbero in simpatia e lo stimarono, tuttavia non lo capirono e certamente non videro in lui uno di loro. Da qui derivò quella sensazione pesante di quella “terribile mancanza” dello studio della Torà. E da qui la sofferenza dell’isolamento; e se la consolazione venne dal Cielo ed ebbe un segno della giustezza della sua strada nel vedere che il figlio e i nipoti riuscirono ad arrivare a quello studio di Torà che lo aveva eluso e questo proprio grazie ai suoi sforzi, con tutto ciò questo non servì ad eliminare tutta l’amarezza.
Questo spiega perché l’alià del nostro Maestro in Eretz Israel segnò l’inizio dello svigorimento dell’attività nella vita pubblica. Non fraintendiamo! L’attività continuò con la stessa persistenza come prima con discorsi, articoli, missioni, con la fondazione di istituzioni, con nuovi programmi; tuttavia i risultati di quell’opera non erano più evidenti come lo era stata l’attività in Italia nella prima metà della sua vita.
E ancor di più, la consapevolezza che il suo insegnamento era stato costruito senza un vero studio gli fece entrare dei dubbi: che forse alcuni particolari del suo insegnamento non erano veri (anche se, secondo me, non ebbe mai alcuna incertezza sulla giustezza dei principi fondamentali)23.
Per questo motivo quando circa trent’anni fa il nostro Maestro iniziò a raccogliere i suoi numerosi scritti con l’intenzione di ripubblicarli nel quadro di una nuova organizzazione, con aggiunte e note, e inserire nelle note anche la storia della sua vita, il progetto si realizzò solo parzialmente. Fu assalito da molte esitazioni sull’appropriatezza degli scritti di gioventù e da qui i lunghi lassi di tempo tra un volume e l’altro, il grande numero di note, spiegazioni, correzioni e avvertenze disperse tra le pagine. Ora il suo sforzo si è concluso. Il diligente lavoratore è arrivato al riposo eterno. Il giovane al quale il Santo Benedetto aveva donato “due reni come due giare che gli insegnavano Torà” e che con questa forza si era lanciato al di fuori del recinto della sua comunità, piccola com’era e povera di Torà, che accese una fiaccola di luce nell’oscurità, salì e si elevò, e con lui elevò compagni e discepoli; l’uomo che fondò una grande famiglia della quale divenne il capo, il leader e l’esempio; il vecchio che ebbe ripensamenti sulle sue prime attività e anche se non le trovò perfette come avrebbe desiderato, certamente disse su di esse: “Felice la mia giovinezza che non imbarazzò la mia vecchiaia”, come le persone che avevano a proprio credito tante buone azioni, e forse aggiunse: “Felice la mia vecchiaia che è stata un’espiazione alla mia giovinezza24”; come i ba’alè teshuvà (penitenti), ora è al riparo sotto le ali della Presenza divina.
Le vie del Signore sono a noi inscrutabili e così pure i cuori degli uomini. Tuttavia il racconto della vita del nostro Maestro risuona come un racconto biblico, nel quale la Scrittura né lo critica né lo loda e talvolta non sappiamo quello che dobbiamo imparare. Il racconto si spiega da solo e la fine è testimonianza dell’inizio: come il risultato della sua opera era stato una benedizione, cosi l’inizio era stato Le-shem shamàim (per amor del cielo).
Colui dal quale uscirono generazioni di persone che seguono la via diritta nella strada della Torà, colui che fece tornare molti dal peccato e salvò loro e i loro discendenti nella famiglia d’Israel quando si trovavano al limite del precipizio, certamente si trova tra gli eletti dell’Eterno e continuerà ad essere un esempio per noi così come ci era stato maestro durante la sua vita.
Ho terminato il mio discorso e non ho finito. Nessuno meglio di me sa quanto sia rimasto lontano dal mio scopo, quanto poco io sia riuscito a dire di quello che volevo, quanto grande sia la distanza tra le mie povere parole e la figura radiante del nostro maestro. Per questo vi chiedo scusa.
Principalmente chiedo le sue scuse; forse ho detto qualcosa che non avrebbe gradito. Mi rivolgo quindi con parole simili a quelle di coloro che preparano la tomba e gli dico: se ho errato, perdonami perché l’ho fatto senza intenzione. Tutto quello che ho detto era per onorarti.
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