SULL’INSEGNAMENTO DI ALFONSO PACIFICI - 2a parte
Gad Sarfatti z”l
Questa è la traduzione dall’ebraico di un discorso tenuto dal professor dott. Gad Ben Amì Sarfatti il 3 Adar Bet 5741(1981) nel trentesimo giorno dalla dipartita di Jehudà Menachèm (Alfonso) Pacifici z”l nel Bet ha- kenesset italiano ‘Ovadyà da Bertinoro a Ramat Gan. Gad Sarfatti, uno dei discepoli più vicini ad Alfonso Pacifici, è deceduto nel febbraio 2006. Le note sono state inserite dalla redazione. In alcune citazioni nel testo è stato ripreso il testo originale italiano come scritto da Alfonso Pacifici.
In quello che ho letto ci sono dei motivi sui quali il nostro Maestro ritornò più volte sia per iscritto sia a voce per tutta la sua vita e che costituirono il corpo centrale dei suoi insegnamenti. Ci sono anche dei punti che nella sua vecchiaia non gradì e che desiderò correggere.
NÉ NAZIONE, NÉ RELIGIONE
L’ebraismo non è una nazione. Questa affermazione non richiede spiegazioni. L’ebraismo per l’ebreo non è come la francesità per un francese o l’italianità per un italiano.
L’ebraismo non è una religione. Fin dalla prima formulazione di questo concetto sorsero molte proteste, perché era cosa accettata che l’ebraismo non fosse altro che una religione. Tuttavia, come il nostro Maestro affermò nella discussione che si sviluppò su questo argomento, la parola religione va compresa nel modo in cui veniva usata in quei giorni. Quando si parlava di religione si intendeva naturalmente parlare della religione cattolica. Questa religione ha come scopo l’espiazione dei peccati, la salvezza delle anime dall’inferno e l’acquisto di meriti per l’aldilà.
La Torà alla base di tutto richiede invece: ”e sarete qedoshìm al vostro D.” (Bemidbàr 15:40), “e sarete per me un regno di kohanìm e un popolo qadòsh” (Shemòt 19:6), “E sarete per me una Segullà tra tutti i popoli” (Shemòt 19:5)
Inoltre la religione, nel modo in cui viene normalmente compreso questo termine, copre solo alcuni settori della vita umana, mentre la Torà obbliga tutto l’essere umano, il suo modo di vedere, il suo comportamento con il prossimo e persino il modo in cui cucina il suo cibo.
A questo punto è importante sottolineare che la richiesta di definire le parole in modo preciso e non ambiguo rimase sempre una preoccupazione puntigliosa del nostro Maestro. Questo creò disappunto presso molte persone per le quali la grande importanza della precisione nell’uso dei termini veniva chiamata nel modo in cui oggi, quando qualcuno insiste ad usare parole precise si parla, erroneamente con disprezzo di questioni di semantica.
Ricordo come esigeva con pignoleria all’inizio della fondazione del nostro Stato di chiamarlo con il nome ufficiale e completo di Medinàt Israel, senza accorciarlo in Israel come si iniziò a fare quasi immediatamente. Su questo opinò che il termine Israel rappresenta un concetto infinitamente più vasto e profondo di Medinàt Israel e pertanto i due termini non vanno confusi uno con l’altro.
Come vedemmo, fin dall’inizio del suo pensiero soleva dire che la definizione derivava da delle negazioni. Una definizione affermativa la trovò solo molto più tardi quando gli divenne chiaro che...
...noi Israel non siamo nazione, perché siamo sempre Casa, Bait, la Casa del nostro Nonno Jaakov Israel, del quale portiamo il nome, del quale abbiamo conservato sempre il ricordo di essere figli.
La definizione di Israel = Bet Israel è un’espansione e un completamento di quel primo lampo di intuizione dell’identificazione dell’IO con il NOI con l’immergersi dell’IO in tutte le generazioni passate e future.
Il popolo di Israel non è un ‘AM (popolo) perché non deriva il suo nome dalla sua Terra (come gli inglesi il cui nome deriva da Inghilterra); è invece la nostra Terra che da noi prende il nome di “Terra d’Israel”.
Pertanto la Terra non è la nostra madrepatria perché la nostra esistenza non trae inizio da essa. Non è la nostra patria come l’Inghilterra è la patria degli inglesi. ... Bait (casato), mishpachà (famiglia) questa è la cellula vivente, la vera base della vita.
Per spiegarmi questo concetto mi fece un impressionante paragone tra l’arca di Nòach (Noè) e le piramidi d’Egitto. La prima era destinata a salvare tutta l’umanità; le seconde a immortalare il ricordo dei faraoni e della vita del loro popolo. L’una non era altro che una debole costruzione di legno buttata alla misericordia delle onde tempestose del diluvio; mentre le piramidi non diedero alcun beneficio all’antico popolo egiziano. E questo perché? Perché nell’arca vi era quella base eterna e fruttifera che è la famiglia.
ORIGINALITÀ DI PENSIERO
Il pensiero del nostro Maestro era ricco e originale; lampeggiava come una fiamma e come tale si rinnovava continuamente cambiando di tonalità. Era qualcosa di magico per coloro che lo approfondivano e delle spine per i suoi oppositori. Lo portò a rinnegare le convenzioni e lo mise in conflitto con le opinioni più comuni.
Immaginiamoci la reazione di coloro che sentivano dire da lui che Eretz Israel non è la nostra madrepatria! Per lui le convenzioni non valevano un fico secco: a lui interessava solo la verità. In alcuni degli scritti che ho letto vi sono dei concetti che contengono l’essenza di tutta la sua vita: la forza dell’intuizione, il senso di missione, il senso del dovere di una devozione senza limiti.
Quel giovane che nel suo primo risveglio “arriva, non si sa come, a intuire...” e che “sentì” che le usanze religiose ovvero le mitzwòt, sono proprio la vita d’Israel, ora vuole che la risposta sia fondata su un’analisi personale, penetrante, onesta e continua di ognuno di noi. Più avanti trovò supporto a questo concetto nelle parole dei Maestri che insegnano che i Patriarchi osservarono tutta la Torà prima che ci fu data, come dire e così ci spiegò, grazie a un’intuizione.
Questo appoggio sull’intuizione era una delle grandi forze del nostro Maestro e conferì al suo pensiero vigore e un continuo senso di rinnovamento, apertura di vedute e coraggio; con tutto ciò in questo si celava, come vedremo, anche un nocciolo di debolezza.
Il nostro Maestro costruì il suo insegnamento basandosi sulla forza dell’intuizione, anche se egli considerò rav Shemuel Hirsh Margulies il suo Maestro per eccellenza. Rav Margulies era originario della Galizia austriaca e divenne rabbino capo di Firenze e capo del Bet Midràsh le-Rabbanìm tra gli anni 1890 e 1922.
Il nostro Maestro fu indirizzato e influenzato da rav Margulies e lo ricordò sempre con enorme affetto. Se è pure vero che rav Margulies era una personalità, un talmìd chakhàm, un uomo di livello superiore e di carattere raffinato, c’è da domandarsi se la sua figura così come se la immaginava il nostro Maestro non era almeno in parte idealizzata.
SENSO DI MISSIONE
Il senso di missione e in particolare l’attività basata sul contatto personale e su conversazioni dirette con il prossimo non conosceva né limite né fatica. Fu questa una delle caratteristiche che più di altre rimasero impresse nel cuore di coloro che lo conobbero.
Era dotato di un’eloquenza superiore e in termini di oggi potremmo dire che aveva una personalità carismatica. Le sue parole, sia quelle rivolte al pubblico, sia quelle ai privati, entravano nel profondo del cuore degli ascoltatori, convincevano, scuotevano, portavano a cambiamenti estremi nelle opinioni e fecero delle rivoluzioni. E questi eranocambiamenti permanenti e non solo sprazzi di Teshuvà (pentimento) di breve durata o aquiescenze temporanee nel corso di una conferenza.
In questo modo il nostro Maestro fece tanti discepoli e portò all’osservanza delle mitzwòt persone che ne erano lontane come da ovest a est. Molte di queste persone, di questi discepoli, vennero in Eretz Israel. Molti arrivarono a un’osservanza totale delle mitzwòt, seguiti dai figli e dai nipoti. (Mentre scrivevo queste righe mi arrivò la telefonata di un mio parente che mi disse: “Non so cosa hai intenzione di dire su Pacifici, in ogni caso ti voglio ricordare che nella yeshivà (accademia talmudica) di Sha’alvìm studiano tre giovani che sono nipoti di tre dei suoi discepoli”).
Quanto sarebbe stata piccola e misera la comunità italiana in Eretz Israel senza l’attività del nostro Maestro!
DEVOZIONE ALLA CAUSA
La vita del nostro Maestro è un esempio di devozione. Fu il fattore primario di tutta l’attività nella missione che assunse su di sé. Tutto il resto fu secondario. Non c’era niente che poteva fermarlo. Era pronto a viaggiare, a organizzare, a incontrare, a parlare, a scrivere, a fondare, a sollecitare... e non c’è bisogno di dire che per lui i soldi non contavano. A questo proposito sono appropriati i versetti di Shir Ha-Shirìm (Cantico dei Cantici): “Se una persona desse tutte le proprietà della sua casa per l’amore (l’amore che il nostro Maestro nutriva per la Torà) lo disprezzerebbero”.
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