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SULL’INSEGNAMENTO DI ALFONSO PACIFICI



di Gad Sarfatti z”l

Questa è la traduzione dall’ebraico di un discorso tenuto dal professor dott. Gad Ben Amì Sarfatti il 3 Adar Bet 5741(1981) nel trentesimo giorno dalla dipartita di Jehudà Menachèm (Alfonso) Pacifici z”l nel Bet ha- kenesset italiano ‘Ovadyà da Bertinoro a Ramat Gan. Gad Sarfatti, uno dei discepoli più vicini ad Alfonso Pacifici, è deceduto nel febbraio 2006. Le note sono state inserite dalla redazione. In alcune citazioni nel testo è stato ripreso il testo originale italiano come scritto da Alfonso Pacifici.

PRIMA PARTE


Ricordare la figura del nostro maestro Jehudà Menachèm Pacifici z”l è un compito oltremodo arduo.

Chi vuole descrivere la figura di un personaggio, se era della sua generazione e ha vissuto con lui, può farlo sulla base di ricordi personali; se non l’ha conosciuto può fare come fanno gli studiosi di storia e descriverne il profilo raccogliendo ricordi e documenti.

Nel nostro caso nessuno di questi metodi è adatto a questo compito. Se è pure vero che la persona di cui vogliamo parlare era della nostra generazione e abbiamo vissuto insieme con lui, è anche vero che fornirne una descrizione storica è prematuro. Inoltre egli visse così a lungo che non vi sono più dei coetanei che possano parlare di lui ricordandone la gioventù.

Per ricordare la figura di Pacifici ho tratto dai ricordi di quarant’anni fa delle nostre lunghe conversazioni nelle vie di Yerusahalaim, da quello che ho sentito da altri, e dalla letture di una parte degli scritti che egli pubblicò.

Se questo incontro avvenisse davanti a un gruppo di persone più o meno anziane che lo hanno conosciuto, forse non ci sarebbe affatto bisogno di parlare. Pertanto quello che dirò è destinato principalmente a coloro che non l’hanno conosciuto o che l’hanno conosciuto poco.


Le prime domande che ci si pone quando si vuole conoscere la figura di una persona sono: chi era e cosa ha rappresentato? Se qualcuno si domandasse: chi era Alfonso Pacifici? Avvocato? Giudice? Giornalista? Scrittore? Educatore? Attivista sionista? Pensatore? Rav? Leader? Predicatore? Tutte queste domande sono vane. Pacifici era tutto questo, più di questo e nulla di questo. Lui stesso scrisse che durante tutta la sua vita era stato una negazione di vari ruoli:


... cominciai ad avvedermi di essere agli occhi degli altri e a sentirmi agli occhi miei, come qualcuno di strano e di estraneo in qualsiasi ambiente - dappertutto soltanto un non: non italiano fra gl’italiani, non sefardì tra i sefardim, non ashkenazì fra gli ashkenazim, non europeo fra gli europei e non asiatico fra gli asiatici; e potrei aggiungere: non moderno fra i «modernizzanti» e non ortodosso fra gli «ortodossi».


I PRIMI ANNI


Così il nostro maestro iniziò a raccontare della sua vita:


Nacqui il primo giugno 1889, pari al 2 di Sivàn 5649, in Firenze di Toscana, dove la mia famiglia paterna abitava da secoli... la mia famiglia materna, Levi, era di Torino.


L’Italia era allora un angolino abbandonato della Diaspora ebraica. Povera in Torà e totalmente isolata dai grandi centri ebraici in

altri paesi. Alcune famiglie osservavano qualche mitzwà per mantenere la tradizione. Pochissime vivevano una vita da ebrei così come la conosciamo oggi.

Il nostro maestro ebbe la fortuna di nascere in una famiglia che gli tramandò lo Shabbàt e i Mo’adìm, la kasherùt e i tefillìn. Tuttavia egli scrisse che tutte queste cose erano:


residui morti o morenti, che si avviavano, rassegnatamente, a finire negli ultimi atti della ripetizione meccanica. Perché allora nessuno credeva più, a quel che sembra, che quelle cose sarebbero continuate ancora un’altra generazione.


Ed ecco che nel mezzo di questa desolazione avvenne l’improvviso risveglio del giovane Pacifici, che egli descrisse così:


Immaginiamoci: un ragazzo di buona famiglia, abbastanza intelligente, senza alcun interesse ebraico specifico, senza un ambiente ebraico né amici ebrei, allievo di scuole non ebraiche, senza aver fatto nessun studio ebraico sistematico, senza, anzi, sapere assolutamente nulla di ebraico, né storia, né Torà- shebealpè [orale]; (mai sentito nemmeno nominare Mishnà e Talmùd), arriva, non si sa come, a intuire che noi siamo qualcosa di unico nel mondo, siamo una nazione (?) la cui esistenza non dipende dal territorio. Al tempo stesso intuisce che quelle che si chiamavano pratiche religiose e come tali erano sgradite al suo spirito, e lontane da lui... erano qualcosa di essenziale, erano tutto l’Ebraismo (come lo chiamavo allora), qualche cosa senza di cui la vita ebraica né potrebbe continuare, né avrebbe ragione di continuare.


Vale la pena dare attenzione alla frase “...arriva, non si sa come, a intuire ..”. L’insegnamento del nostro Maestro non scaturì da letture o da studi ma da intuizione. La cosa ci ricorda il Midràsh che insegna che Avrahàm avìnu (il nostro patriarca) non ebbe né padre né insegnanti che gli fecero da maestri. E come imparò la Torà? Il Santo Benedetto gli dette due reni come delle giare che gli versavano l’insegnamento della Torà e della sapienza durante la notte (Bereshìt Rabbà, 61).

Non è un caso che negli scritti del nostro Maestro la figura di Avrahàm avìnu gli era sempre presente. Questa sua intuizione si trasformò subito in una profonda fede e ad essa si aggiunse un fortissimo desiderio di fare partecipi anche gli altri delle sue esperienze interne e del suo ritorno alla Torà. Così egli raccontò questa esperienza:


Questo giovane si sente improvvisamente preso da un furore apostolico, cerca d’infiammare, di scuotere, di portare alle osservanze un suo compagno d’antica data, che da allora diventa suo amico e, per così dire, il suo primo discepolo. A questo primo si aggiungono altri, pure compagni di studi all’Università di Pisa



Come sappiamo, sono proprio i buoni discepoli che rendono più saggio il loro maestro. E fu proprio grazie alla spinta dei suoi discepoli che il nostro Maestro scrisse la sua prima opera nella quale descrive l’essere ebreo nel modo in cui egli lo vedeva e le azioni che dovevano seguire questa visione. Il libro nacque nella forma di lettera a tre compagni che completò nel 1911 quando aveva 22 anni. Il titolo fu La Nostra Sintesi - Programma.

Il nostro Maestro in una delle sue ultime lettere riassunse il contenuto del libro in dodici punti, che riassumiamo ulteriormente qui di seguito:


Israel è unico, è un fenomeno senza eguali nella storia del mondo, che non può essere fatto rientrare in nessuna delle categorie conosciute. In particolare, le due definizioni più correnti - religione e nazione - sono tutte e due fondamentalmente inesatte: Israele non è né religione, né nazione né la somma delle due.


Le mitzwòt non sono, come solitamente si dice pratiche religiose, che, come tali, ognuno possa prendere o lasciare a suo gusto e all’infuori di qualsiasi lecito controllo esterno - ma rappresentano la più alta e completa espressione della vita umana, individuale e sociale. Senza le mitzwòt in atto la vita d’Israele non ha né ragion d’essere né (più o meno presto) possibilità di essere, come si osserva dolorosamente nell’attuale crisi che da quasi due secoli continua a mettere in pericolo l’esistenza stessa d’Israele, perché avendo svuotato la sua vita di un qualunque contenuto cosciente e preciso, ha fatto con questo smarrire tanti che sono andati a perdersi, con le loro discendenze, fuori dal complesso d’Israele.

La crisi ha consistito di fatto nello smarrimento, da parte di molti, forse dei più, d’una chiara coscienza dell’essenza unica d’Israele, sostituendola con definzioni d’imprestito (fra cui specialmente religione e nazione) che, essendo inesatte, non possono reggere e anzi allontanano sempre più dal ritrovamento dell’essenza vera.


Per attuare questo ritrovamento è necessario, ma anche sufficiente, che ciascuno di noi interroghi appassionatamente, sé stesso, meglio con l’aiuto della storia, che ... è capace di darci la possibilità di avvertire fatti e d’intuire spiegazioni.


Una tale interrogazione di sé stesso, se sarà stata abbastanza fonda, sincera e insistente, dovrà inevitabilmente portare a rivelare nel profondo dell’anima di ciascuno di noi quella certa cosa che si potrebbe chiamare la coscienza immediata di tutte le proprie generazioni del passato e dell’avvenire...


Questa coscienza esalterà il nostro io individuale ad un NOI, nel quale però il nostro io individuale non si perde, anzi s’ingigantisce, un NOI fatto appunto di quell’immediato convivere di tutte le nostre generazioni del passato e dell’avvenire...


Una volta ritrovata la coscienza del NOI (col linguaggio del salmo, Nafshènu, l’anima nostra), la riassunzione in atto delle mitzwòt, di tutte le mitzwòt , diventerà cosa spontanea e immediata, perché le mitzwòt sono propriamente il «sistema di vita» di Nafshènu...


Niente altro al mondo - in particolare non la nazione né lo stato - è capace di attuare un «sistema di vita» ... e questo perché ci si oppone il dualismo insuperabile, dovunque all’infuori della Torà, tra l’io e il noi...


Tanto la religione quanto la nazione-stato, nella loro qualità di sistemi parziali, frammentari, sono obbligati a riconoscere zone d’indifferente o di estraneo a sé e quindi sono pronti a venire a compromessi con altri settori della vita (scienza ecc.). Solo la Torà è unitaria e totale, non conosce e non ammette né indifferente né estraneo ad essa. In questo è il riflesso dell’assoluta unità di D.


Per tornare alla riaffermazione concreta di tutto questo, cioè del «sistema di vita» della Torà eterno e immutabile perché perfetto e definitivo, ci è imposto in questo tempo di crisi, di eliminare, con pazientissima opera di rivelazione e rieducazione, tutti quegli ostacoli, fatti di fraintendimenti e di adulterazioni, che sono stati il portato specialmente delle persecuzioni e dell’esilio. Prima di tutto s’imporrà la necessità di un’accuratissima revisione terminologica, cioè il fare sempre attenzione a evitare sistematicamente l’uso di nomi inesatti, come appunto religione, nazione e altri, rendendosi conto che i nomi posseggono in sé un’enorme potenza formativa o deformativa e che perciò se non si sia riusciti, preliminarmente, a eliminare del tutto l’uso di nomi inesatti, non si avrà nessuna speranza di riuscire a rieducare alla chiara coscienza della verità.


Quest’opera, alla cui attuazione sarà necessaria una dedicazione completa da parte di ognuno di noi che sia tornato a riconoscere e riassumere la verità, dovrà svolgersi in piena indipendenza, al di fuori dei quadri di tutte le odierne espressioni organizzate della vita ebraica, in ispecie al di fuori dei quadri di quella che si chiama di solito «religione israelitica» e di quella che si chiama attività sionistica.


Per quest’opera di educazione tutti i mezzi abituali di espressione di azione possono essere adoprati, ma preminentissimo fra tutti dovrà essere il contatto d’anime, quale può essere stabilito soltanto attraverso la conversazione diretta, da uno a uno.


LA SECONDA PARTE SARÀ INVIATA NELLA NEWSLETTER DELLA SETTIMANA PROSSIMA

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Dediche
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In memoria di Antonella bat Giuseppina z.l.
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