RABBI YISHMA’EL HACOHEN E L’INOCULAZIONE DEL VAIOLO
di Rav Riccardo Di Segni
Introduzione
Il vaiolo è stato per l’umanità un incubo terribile fino a pochi anni fa (1980), quando dopo intense campagne di vaccinazione su scala mondiale, si è arrivati alla sua eradicazione. Quando arrivavano le ondate epidemiche di vaiolo queste potevano sterminare circa il 30% dei colpiti, talvolta molti di più. Chi sopravviveva portava sul corpo e sul volto i segni deturpanti della pregressa malattia.
Per molti secoli, per difendersi dal vaiolo, in alcuni paesi del mondo si praticò la variolizzazione: una pratica in cui si prendeva della sostanza dalle pustole dei pazienti infetti in forma blanda e la si iniettava in soggetti sani, che sviluppavano di conseguenza una forma non violenta di vaiolo e che grazie a questa rimanevano immuni quando l’epidemia naturale si diffondeva. La pratica tuttavia non era esente da rischi, perché la malattia inoculata poteva essere violenta come quella naturale, e si calcola una mortalità di circa il 2-3% degli inoculati.
Fu solo nel 1796 che il medico inglese Edward Jenner sviluppò una nuova tecnica che nasceva dall’osservazione che le mungitrici (milkmaids, in inglese) di vacche infette da una malattia simile al vaiolo potevano ammalarsi di questa malattia simile, ma quando arrivavano le epidemie di vaiolo ne rimanevano indenni. Nacque così la vaccinazione (dalla parola vacca) consistente nell’inoculazione di materiale prelevato dalle pustole delle vacche ammalate.
Si sarebbe poi dimostrato che la malattia delle vacche era dovuta a un virus (Vaccinia) simile a quelli del vaiolo (Variola major e il meno letaleVariola minor) ma taleda conferireun’immunità ancheperil vaiolo. I risultati furono pubblicati da Jenner nel 1798 e accolti subito con entusiasmo. La pratica della vaccinazione fu introdotta in Italia già dal 1800 e si diffuse rapidamente.
Prima di Jenner la variolizzazione (o “inoculazione”) si diffuse dalla Turchia in Inghilterra e quindi in Europa. I risultati abbastanza incoraggianti indussero molti sovrani a introdurre la pratica nelle loro corti (Austria, Russia, Francia); da qui lentamente si diffuse nella popolazione. L’epoca di principale diffusione fu la seconda metà del XVIII secolo; in Italia in particolare la Toscana e Napoli .
L’interesse nel mondo ebraico
Il problema inevitabilmente investì le comunità ebraiche, che per la relativa maggiore presenza di medici ne furono a conoscenza prima del vasto pubblico e probabilmente ebbero maggiori possibilità di praticare l’inoculazione. La questione umana, scientifica e halakhica era semplice: se fosse lecito sottoporsi a questa pratica protettiva che comportava comunque un certo rischio di mortalità. La prima domanda di cui abbiamo notizia partì da Casale Monferrato, dal rabbino Yehudà Chayim Ghiron , diretta a una delle maggiori autorità rabbiniche italiane del tempo, rabbì Yishma’el HaCohen di Modena . Non sappiamo purtroppo la data dello scambio epistolare. La risposta fu pubblicata al numero 32 nel secondo volume dei responsa di rabbì Yishma’el, il Zera’ Emèt che vide la luce a Livorno nel 1796.Questa data esclude che la discussione si riferisca alla vaccinazione di Jenner che cominciò a diffondersi subito dopo e che, pur non esente da complicazioni, ne comportava molte di meno della inoculazione.
La procedura è chiamata con le parole italiane scritte in caratteri ebraici “inoculazione del varoli”:
L’analisi di rabbì Yishma’el
Nella sua lunga discussione rabbì Yishma’el esamina i pro e i contro.
Pro: Il primo argomento è che la malattia naturale è molto più pericolosa di quella artificiale, quindi con la pratica della inoculazione si salvano delle vite. Contro: La risposta è che comunque sono in molti a salvarsi anche nella malattia naturale, mentre se li inoculi artificialmente potrebbero morire. Qui deve essere applicato il principio che “nel pericolo di vita non si va secondo la maggioranza” (T.B., Yomà 85a). Se c’è il rischio di perdere una vita umana, o la possibilità di salvarla anche se le probabilità sono minime, si viola la legge. Nel nostro caso, se con l’inoculazione si mette a rischio anche solo una vita, anche se il rischio è minimo, non si deve correre il rischio e ci si astiene.
Pro: Se qualcuno muore per l’inoculazione a maggior ragione morirebbe comunque di malattia naturale, quindi nel bilancio finale si guadagna sempre. Contro. Risposta: si applica il principio c h e “ c i s i preoccupa della vita di un’ora”. Questo significa che si fa di tutto per salvare una vita umana anche se la sua prospettiva di vita è minima. Se una persona soccombe sotto a un crollo, si scava di Shabbàtper salvarlo, anche se le sue speranze di sopravvivenza sono minime (T.B., Yomà, 85a). Quindi anche un percorso minimo di vita va tutelato. Quindi nel nostro caso se una persona oggi sta bene e quando arriva l’epidemia potrebbe ammalarsi e morire, non la si mette a rischio oggi con l’inoculazione togliendole anche la poca vita che ha davanti.
Pro. Obiezione: il principio evocato non è unanime. Può valere anche il contrario. Nel Talmud babilonese (‘A.Z. 27b) si discutedella liceità di usare terapie illecite e potenzialmente pericolose per salvare una vita in pericolo. Se la persona ha speranza di vita, è proibito usarle. Se sicuramente è destinato a morire, si usano. Ma, si obietta, così facendo si pregiudica quel poco di vita che la persona avrebbe davanti a sé. La risposta è che in questo caso “non ci si preoccupa della vita di un’ora”. Il principio qui affermato è il contrario di quello in Yomà. Le Tosafot (ibid. cpv. lechayè sha’à) risolvono la contraddizione spiegando che in ogni caso si agisce per il bene della persona: per liberarla dal crollo, anche se sopravviverà poco, e per salvarla dalla morte certa anche se le si riducono i pochi istanti di vita naturale. Quindi per il bene della persona non cisi preoccupa della sua ridotta speranza di vita. Nel caso dell’inoculazione, siccome è probabile, o quasi certo, che comunque potrebbe morire, si tenta di salvargli la vita. Contro. Risposta: Bisogna distinguere tra le varie accezioni di “vita di un’ora”, che non sono confrontabili. Il caso citato in ‘A.Z. (27b) è da intendere letteralmente, di pochi minuti, mentre quello della inoculazione è certamente un periodo molto più lungo di attesa, di un’epidemia che non sappiamo se e quando arriverà. Inoltre le Tosafòt mettono a confronto il dubbio di pochi minuti di vita con la certezza della morte, per cui il dubbio non può prevalere sulla certezza. Nel nostro caso non c’è la certezza della morte in caso di epidemia.
Fin qui la situazione appare contraria alla procedura. Dopo queste premesse, rabbì Yishma’el espone la sua tesi. La procedura è consentita quando un medico esperto dichiara, secondo la sua arte, che la persona non corre per questa alcun pericolo di morte. E cita il caso di un membro della sua comunità che si era sottoposto felicemente alla procedura dietro assicurazione di un medico ebreo esperto.
Le ulteriori dimostrazioni
Per sostenere questa sua opinione riporta una serie di casi dai quali dimostra che la halakhà dà piena fiducia al medico anche quando si tratta di divieti rigorosi .
Il primo caso citato è in realtà un caso controverso. È quello di una donna che vede sangue dopo un rapporto sessuale. Dopo il secondo episodio se un medico le dà una medicina garantendo la guarigione, la donna può avere un terzo rapporto. Ma dopo un terzo episodio il fatto che la donna veda sangue è diventato certezza (chazaqà). A questo punto se un medico ebreo garantisce il risultato di una terapia, ci si può fidare di lui per consentire la prosecuzione dei rapporti?
Su questo compaiono due opinioni contrapposte, quella del Sefer haTerumà (di Barukh ben Yitzchaq di Worms, 1140-1212) che dice è dubbio che ci si possa fidare, e quella del Ritzbà (Yitzchaq ben Avraham di Dampierre, inizio XIII sec.) che dà fiducia al medico.
Entrambe le opinioni sono riportate nel Bet Yosef (Yorè De’à, 187:8) e quindi nello Shulchàn ‘Arukh. Dalla formulazione definitiva della regola, rabbì Yishma’el deduce che l’autore, rav Yosef Caro, sostiene l’opinione facilitante e che la citazione dell’opinione rigorosa è solo per dire che persino il parere di un medico non ebreo non è sicuramente proibito. Quindi, nel nostro caso, se c’è un medico ebreo esperto che garantisce la procedura, ci si può fidare. E certamente ci si fida di lui fino a che il divieto non è certo ma solo possibile, nel senso che non è certo che qualcuno possa morire per la procedura.
A sostegno di questa interpretazione e della affidabilità del medico, rabbì Yishma’el riassume precedenti sue riflessioni su un ampio ventaglio di casistica in cui l’opinione dei medici è vincolante:
* La valutazione medico legale delle conseguenze delle percosse subite, se possano portare o meno a morte, con conseguente differenza nella pena da erogare al responsabile (T.B., Sanhedrin 78).
*La valutazione del caso di una donna che aveva abortito delle forme strane (T.B., Niddà 22).
*La valutazione dell’effetto di alcune sostanze usate per lavare i capelli, se li leghino in modo da impedire l’effetto della tevillà (Shulchàn ‘Arukh Yorè De’à, 199:2, Remà a nome di rav Yosef Colon).
*La valutazione dello stato di un malato per quanto riguarda i divieti di Shabbàt e il digiuno di Kippùr (Shulchàn ‘Arukh Orach Chayim rispettivamente 328 e 618).
La conclusione del ragionamento basato su queste prove è: “Nel nostro caso, in cui non c’è certezza di morte in conseguenza dell’inoculazione, per poter proibire, è chiaro che tutti sono d’accordo che ci si possa ben basare sui medici per permetterla”.
Dopo aver fissato questo principio, rabbì Yishma’el tiene conto del dubbio: ma se non ci si fida dei medici che garantiscono l’innocuità della procedura, e potrebbe essere che vi sia la certezza di una mortalità, benché minima (1 per mille), con quali strumenti si può affrontare il problema? La soluzione sta nel riprendere un elemento della discussione iniziale tornando alla pagina di Yomà citata (84b), in cui vi sono alcuni fondamenti di statistica applicata alla halakhà.
L’analisi della questione qui diventa particolarmente complicata, ma decisiva. Il caso di cui si parla è quello di un crollo che ha fatto delle vittimema non si sa chi siano. Per spiegaremeglio, immaginiamo che vi sia un gruppo formato da criminali nazisti (che non meritano di essere salvati) e da ebrei. C’è una persona sotto le macerie. Si interviene (di Shabbàt) per recuperarla? Certo che sì, se la maggioranza del gruppo erano ebrei. Ancora sì, se erano metà e metà, per il motivo che safèq nefashòt lehaqèl: che significa: “nel dubbio di una vita in pericolo si è facilitanti”.
Ma anche se fosse uno solo tra tanti (uno su mille secondo Rambàm, Shabbàt, 2:20) si interviene, perché la presenza stabile, di uno solo, vale come se fosse 50%. Il problema nasce quando il gruppo originario di cui conosciamo la composizione e in cui la presenza ebraica era minoritaria si è spostato. Vale ancora il principio che “nel pericolo di vita non si va secondo la maggioranza”, quindi ci si preoccupa anche di una minima possibilità?
La risposta è che dipende da quanti si sono spostati, tutti o una parte. L’interpretazione di questa risposta è controversa tra gli interpreti di quel passo dei Talmud. Secondo Rosh, Rambam e Shulchàn ‘Arùkh, se l’intero gruppo si è spostato e dopo uno solo si è ulteriormente spostato, non ci si muove per salvarlo, perché vale il principio che kol deparìsh mirùbba parìsh: “un campione prelevato da un gruppo disomogeneo viene dalla maggioranza”; se invece si è spostata un’unica persona una sola volta ci si muove per salvarla.
Secondo Rashì, invece, quando si parla di spostamento di tutti, ci si muove per salvare, mentre se si è spostato uno solo si segue la regola della maggioranza e non ci si muove per salvarlo. Le conseguenze di queste interpretazioni nel nostro caso sono che quando vale il principio che non si segue la maggioranza e ci si preoccupa anche di una minoranza significa che ci si muove per salvare anche una minoranza. E nel caso della inoculazione, se esiste la possibilità che uno solo muoia, non si fa l’inoculazione.
Ma secondo il Rosh e gli altri autori, quando l’intero gruppo si sposta, la regola della minoranza non si applica più e si segue la maggioranza; pertanto nel nostro caso, in cui non c’è certezza di morte per inoculazione, si segue il criterio della maggioranza, che certamente sopravvive. E anche secondo l’interpretazione di Rashì si sta attenti alla minoranza solo quando la presenza della persona da salvare sia certa; nel caso dell’inoculazione, in cui non c’è certezza di morte, si segue la regola della maggioranza che sopravvive, quindi si fa.
Per quale motivo rabbì Yishma’el, dopo aver presupposto che vi sia una certezza di mortalità, sia pur minima, conclude il ragionamento dicendo che la certezza non c’è? Perché questa certezza si riferisce alla mi'ùta demi'ùta, “la minoranza della minoranza”, vale a dire una minima minoranza, e “persino rabbì Meir che si preoccupa della minoranza non si preoccupa della minoranza della minoranza” (T.B., Yevamòt 119).
In conclusione, essendo i vantaggi di gran lunga superiori ai possibili danni, rabbì Yishma’el appoggia il comportamento di chi pratica l’inoculazione basandosi sulla sua sostanziale innocuità o al massimo della minima mortalità, della quale non bisogna preoccuparsi.
La seconda risposta
La risposta finiva qui, ma ci fu un seguito. L’interrogante non soddisfatto, con molta cautela e rispetto per rabbì Yishma’el, rilanciò. I medici, disse, non sono affatto d’accordo sulla innocuità della procedura. Non è detto che da una pustola di una persona che non si è ammalata gravemente possa derivare una forma attenuta di malattia: lo si vede anche nell’industria della seta, dove anche se si cerca di produrre bozzoli sempre più buoni selezionandone i migliori, dai bachi migliori possono derivare bozzoli di cattiva qualità .
In ogni caso, sosteneva chi faceva la domanda, la migliore soluzione dovrebbe essere quella suggerita dalla halakhà, di fuggire dalle epidemie e in questo caso di fuggire da una pratica che invece avvicina alla malattia.
La nuova domanda sollecitò un ulteriore intervento di rabbì Yishma’el questa volta concentrato sul tema dell’obbligo di fuggire dai luoghi di diffusione dell’epidemia.
La fonte principale da cui partiva il suo ragionamento fu un responso del Maharil (Ya’aqov haLevi Moelin, 1360-1427, Magonza; il responso porta attualmente il n. 41), in risposta a chisosteneva che fosse proibito fuggire in tempi di dèver, epidemia. La conclusione del Maharil fu che non fosse proibito fuggire. Il problema in realtà è più antico e se ne parla nel Talmud (T.B., Bavà Qamà, 60 b) dove il suggerimento è quello di “raccogliere le gambe”, non muoversi e rimanere chiusi in casa.
Questa indicazione sembra in contraddizione con un’altra serie di suggerimenti (come nel Sefer Chassidìm) che, basandosi sul fatto che in un’epidemia ognuno può essere colpito e non c’è più distinzione tra giusti e malvagi, anzi i giusti sono i primi a soccombere, è meglio scappare quanto prima. Il Maharil risolve la contraddizione spiegando che finché si è in tempo perscappare è meglio farlo, quando poi l’epidemia si è diffusa è meglio chiudersi in casa.
Secondo rabbì Yishma’el, il Maharil non sta prescrivendo di scappare ma lo suggerisce soltanto quando si è ancora in tempo; e in un’altra fonte, il Maharshà (Shemuel Edels, 1555-1631 a commento del brano di Talmud), le due opzioni (fuga e rinchiudersi in casa) sono facoltative, ma non si distingue tra prima e dopo.
Un altro autore, il Maharshal (Shelomò Luria, 1510-1573, in Yam shel Shelomò a Bavà Qamà, 26) cita le parole del Maharil concludendo che la fuga è obbligatoria, a differenza del Maharil che diceva che non è proibita. Secondo rabbì Yishma’el la posizione del Maharshal va intesa nel senso che quando è impossibile restare rinchiusi allora bisogna scappare.
Un’altra fonte citata nella discussione è lo Zohar(I, 107 b) che dice che in tempo di epidemia non bisogna farsi trovare per strada e cita la storia dell’arca di Noè, la notte del Pesach in Egitto (“voi non uscirete dalla porta di casa fino al mattino”, Shemòt, 12:22) e la fuga di Lot da Sodoma con il divieto di voltarsi. La sequenza delle citazioni (prima quelle che parlano di rinchiudersi, poi quella della fuga) significa per rabbì Yishma’el che per lo Zohar valgono entrambe le opzioni, clausura o fuga .
Le citazioni si concludono con quella del Remà in Darkè Moshè a Tur, Yorè De’à, 116: “Bisogna fuggire dalla città… e anche se nella Ghemarà si dice di ‘raccogliere le gambe’, a maggior ragione fuggire è meglio, ma se si può rinchiudere lo faccia, altrimenti è obbligato a fuggire”.
Trasportando le conclusioni che si traggono da queste fonti al caso dell’inoculazione si potrebbe dire che c’è un obbligo per i genitori di allontanare i figli dal vaiolo (sia naturale che indotto dall’inoculazione). Ma, sostiene rabbì Yishma’el, tutte queste fonti parlano di una cosa differente dal vaiolo, il dèver (che finora qui abbiamo tradotto come epidemia). Il dèver, dice rabbì Yishma’el secondo una nozione diffusa ancora ai suoi tempi, deriva dall’aria corrotta, si spande e non distingue tra le vittime e può colpire un posto si e uno no. Il vaiolo è un’altra cosa, un dèver naturale, che serve a fare uscire gli umori dal corpo e nessuno gli può sfuggire e se ora non colpisce colpirà un’altra volta; di fatto vediamo che in caso di vaiolo la gente, e in particolare le famiglie ebraiche non usano fuggire. E qui cita lo Shelà (di Yesha’yà Horowitz, 1555-1630, Sha’ar haotiyot dalet, Derekh Eretz) che conferma questa consuetudine di non fuggire (chiamando il vaiolo anche con il nome tedesco di blattern) e la condanna; ma per rabbì Yishma’el l’uso delle persone rimane malgrado tutto quello di non scappare, e questo si spiega con le spiegazioni portate sopra (sulla differenza specifica del vaiolo dal dèver).
Pertanto, conclude rabbì Yishma’el, queste considerazioni non sono sufficienti per proibire l’inoculazione. Aggiunge un dettaglio di cui finora non aveva parlato: “in particolare perché non si usa fare questa operazione salvo che quando ci sia già l’epidemia in città”.
In definitiva la posizione di chi permette va per lui sostenuta; tuttavia, a coloro che hanno timore di dare istruzioni rabbiniche, dice che èmeglio non essere attivi a dire permesso o proibito su questo argomento e il silenzio è preferibile finché ci si può sottrarre ai quesiti; ad una persona che glielo aveva chiesto aveva risposto che essendo la questione dubbia si doveva affidare alla professionalità del medico. In sostanza: se un medico garantisce il risultato e/o se il rischio è remoto, la procedura è permessa, specialmente quando l’epidemia è in corso, ma non si divulga attivamente il permesso in pubblico.
Considerazioni conclusive
Il responso di rabbì Yishma’el è problematico per i suoi aspetti scientifici. Stupisce la sua certezza sulla innocuità della procedura. Difficile dire come abbia potuto trovare dei medici tanto sicuri.
Tra l’altro proprio a Modena l’inoculazione fu la causa di una epidemia di vaiolo nel 17789 . Dal punto di vista scientifico inoltre, in base alle conoscenze attuali, la sua distinzione tra dèver e vaiolo è problematica e forse aveva più ragione di lui lo Shelà, di cui critica l’opinione, che ordinava di scappare.
Non sappiamo cosa fosse precisamente il dèver, che può indicare varie situazioni e nel linguaggio rabbinico si riferisce a un brusco aumento di mortalità in un determinato luogo, ma che può diffondersi altrove; dovrebbe trattarsi di una malattia contagiosa, in cui l’inquinamento atmosferico poteva contribuire, ma non era la causa principale, ma recentemente abbiamo visto che certi inquinamenti aumentano la mortalità (da Seveso a Chernobyl a Casale Monferrato, proprio il luogo da cui, due secoli prima era partita la domanda di rav Ghiron a rabbì Yishma’el); ma il vaiolo è certamente malattia contagiosa dovuta a un virus e non serve a spurgare gli umori.
In ogni caso ha qualche senso la sua considerazione che in caso di epidemia il vaiolo prima o poi si sarebbe diffuso contagiando tutti, quindi a poco sarebbe servito fuggire; ma questo potrebbe valere anche per il dèver, se di malattia infettiva si tratta.
Rabbì Yishma’el fu comunque tra i pochi rabbini a pronunciarsi su questo argomento . Aldilà dei suoi limiti scientifici le considerazioni halakhiche sulla valutazione del rischio sono fondanti e aprono un’era. Subito dopo la pubblicazione del responso cominciò a diffondersi la vaccinazione di Jenner.
Le certezze di rabbì Yishma’el sulla innocuità o i minimi rischi erano infondate per la inoculazione, ma ben adatte per la vaccinazione. Sostanzialmente il messaggio è che se il rischio è minimo la procedura è permessa (e poi si discuterà se è obbligatoria). Le sue parole valgono ancora come guida in tutta la discussione successiva halakhica sui vaccini e suonano di attualità anche ai nostri giorni in cui, malgrado i progressi scientifici, si dibatte molto nel mondo in generale in quello rabbinico in particolare sull’opportunità di sottoporsi a nuovi tipi di vaccinazioni.
Comments