NOTE SUL CHATÀN TORÀ E SUL CHATÀN BERESHÌT
NOTE SUL CHATÀN TORÀ E SUL CHATÀN BERESHÌT107
Donato Grosser
Le usanze di Simchàt Torà
R. Yosef Caro (1488-1575) nel suo Shulchàn ‘Arùkh (Orach Chayìm, 669)
scrive che “quando si festeggiano due giorni festivi [come nella Diaspora],
nel nono giorno [cioè di Simchàt Torà che è il secondo giorno di Sheminì
‘Atzèret dopo i sette della festa di Sukkòt] si portano nella sinagoga tre
Sifrè Torà: nel primo si legge la parashà di Vezòt Haberakhà fino alla fine
della Torà; nel secondo si inizia a leggere la parashà di Bereshìt [Genesi,
che è la prima parashà della Torà] e nel terzo si legge il Maftìr ... [la
lettura aggiuntiva che tratta della festa del giorno].
R. Moshè Isserles (1525?-1572), nelle sue glosse allo Shulchàn
‘Arùkh, aggiunge che il giorno viene chiamato Simchàt Torà, la festa della
Torà, perché si è felici e si fa un pranzo per celebrare la conclusione della
lettura della Torà. Egli aggiunge che in Polonia “si usano portare nella
sinagoga tutti i Sifrè Torà sia di sera sia di mattina e cantando si gira
attorno al palco dove si legge la Torà. Poi tutti gli uomini vengono
chiamati a leggere la Torà”.
Un altro uso è quello di scegliere un notabile per la lettura del
brano conclusivo della Torà (il Chatàn Torà) e un altro per la lettura del
brano iniziale della Torà (il Chatàn Bereshìt).
Il minhag italiano di Simchàt Torà
Nel Tanyà Rabbati , composto a Roma nel XIII secolo E.V. e pubblicato nel
1514 a Mantova senza il nome dell’autore (si ritiene sia stato Yechiel ben
Yequtiel Anav), nel capitolo 88 è scritto che il Chatan Torà viene chiamato
a sèfer con dei pizmonìm (dei poemi tradizionali)108 per leggere la
porzione conclusiva della parashà di Vezòt Haberakhà e concludere così
la lettura annuale della Torà.
Dopo aver letto le parole conclusive della Torà “Le ‘enè kol Israel”, il
chazàn del Bet Hakenesset prendendo il Sèfer Torà dice “Abbiamo
meritato di completare la lettura in pace; che possiamo meritare di
iniziarlo e di completarlo in pace” (zachinu lehashlim leshalom venizke
lehatchil u lehashlim leshalom). Poi il chazàn dice “Chazàq” al Chatàn
Torà e tutto il pubblico risponde “Chazàq”. Prima che il Chatàn Torà
reciti la seconda berakhà dopo la lettura della Torà, il pubblico e il
Chatàn Torà recitano a memoria (o da un chumàsh e non dal Sèfer Torà)
la prima porzione della parashà di Bereshìt. Il motivo per cui non si
estrae un secondo Sèfer Torà per leggere la prima parte della parashà
di Bereshìt è che una sola persona non deve leggere in due Sifrè Torà
differenti affinché non si pensi che il primo è stato messo da parte
perché conteneva degli errori.
Il Chatàn Bereshìt secondo il minhàg italiano
Da quanto scritto sopra si impara che secondo il minhàg italiano, di
Simchàt Torà si onora solo una persona come Chatàn Torà. Non vi è di
Simchàt Torà una seconda persona onorata come Chatàn Bereshìt, come
usano gli ashkenaziti. Infatti l’autore del Tanyà Rabbatì non menziona
nulla del Chatàn Bereshìt.
Il Chatàn Bereshìt viene però menzionato in un responso del 1400
di Rav Yosef Colon, detto il Maharik dalle sue iniziali. In questo responso
( n. 9) egli (che era ashkenazita di origine francese), descrive il minhàg dei
“lo’azim”, come venivano chiamati gli ebrei che seguivano il rito italiano.
Il minhàg italiano tuttora in voga prevede di chiamare il Chatàn
Bereshìt a leggere la prima chiamata della Torà nello Shabbàt dopo
Simchàt Torà, quando si inizia a leggere la parashà di Bereshìt, e non a
Simchàt Torà. A Mantova, dove avvenne il fatto descritto nel responso di
R. Colon (che era Rav e Rosh Yeshivà della città), vi era l’usanza di mettere
all’asta la prima chiamata della Torà dell’anno e i fondi ricavati venivano
usati per acquistare olio per l’illuminazione della sinagoga.
Normalmente, durante l’anno, come prescrive il Talmud
babilonese nel trattato Ghittìn (59-60), il primo chiamato alla lettura della
Torà è un Cohen, il secondo un Levi e gli altri israeliti. In questo modo si
evitano litigi perché nessuno può pretendere l’onore di ricevere la prima
chiamata affermando di meritarla più degli altri.
In quell’occasione l’asta venne vinta da un israelita e non da un
Cohen. Al fine di permettere a questo israelita di salire alla Torà per
primo, la comunità chiese cortesemente ai cohanìm presenti di uscire
dalla sinagoga, come si usa fare in queste situazioni. Un Cohen si rifiutò
di uscire anche se vi era un’altra sinagoga disposta a dargli la prima
chiamata. Per sbloccare la situazione i notabili della sinagoga diedero
ordine a una guardia di tenere fuori dalla sinagoga questo Cohen.
Il responso di R. Yosef Colon sul Chatàn Bereshìt
Dopo questo Shabbàt un talmìd chakhàm membro della sinagoga scrisse
una lettera a R. Colon spiegando l’accaduto e chiedendo se avevano
operato in modo appropriato dando la prima salita a Sèfer a chi aveva
offerto di più e non a un Cohen. R. Colon rispose che la comunità si era
comportata in modo corretto e ne spiegò le ragioni:
1. Il minhàg di mettere all’asta la prima alià della parashà di Bereshìt è
molto antico e non bisogna cambiare le usanze stabilite dagli antichi
predecessori che erano persone pie.
2. Il minhàg era stato istituito per onorare la Torà, perché quando il
pubblico fa offerte per il privilegio di essere chiamato alla Torà, “non vi è
maggiore prova di avere a cuore la Torà”.
3. Che anche rav Hai Gaon (Babilonia, X secolo E.V.) aveva detto che un
minhàg istituito per onorare la Torà metteva da parte anche la proibizione
di danzare di Yom Tov.
4. Non bisogna cambiare minhaghìm per non creare litigi.
5. In certi casi si segue il minhàg anche quando la Halakhà è differente
come menzionato nel Talmud babilonese, trattato di Menachòt (32a).
6. In questo caso era appropriato per la comunità comportarsi così
perche il Cohen recalcitrante avrebbe potuto ricevere una salita alla Torà
in un’altra sinagoga e per cose del genere “kofim al midàt Sedòm”, ossia
si obbliga una persona a cedere e a non permettergli di comportarsi come
era uso nella città di Sodoma i cui abitanti furono puniti anche per
mancanza di generosità (T.B., Ketubbòt, 103a). Inoltre, dal momento che
anche un Cohen ha il dovere di dare precedenza ai più grandi talmidè
chakhamìm della sua generazione, a maggior ragione deve cedere il suo
diritto alla prima salita a sèfer quando si tratta di dare onore alla Torà.
L’importanza del Chatàn Bereshìt
Vi è un’opinione che sostiene che il Chatàn Bereshìt sia più importante
del Chatàn Torà. Nel capitolo 156 dell’opera Harerè Qèdem, l’autore Rav
Michel Shurkin menziona che Rav Moshè Soloveitchik sosteneva che la
gioia che si ha per la conclusione del ciclo annuale della lettura della Torà
non deriva dal fatto che si legge l’ultima porzione della Torà, ma perché
con la conclusione della lettura della Torà si riceve nuova energia per
poter iniziare la lettura del nuovo ciclo annuale. In altre parole, grazie al
fatto di aver studiato tutta la Torà, si ha acquistato più sapienza e capacità
di ragionare per poter studiare Torà meglio di prima109.
Questa infatti era stata la gioia di re Salomone, per la quale venne
a Gerusalemme e fece dei sacrifici e un banchetto per tutti i suoi
dipendenti dopo che l’Eterno gli aveva promesso più sapienza di tutti gli
uomini perché Salomone nella visione profetica aveva chiesto sapienza e
non ricchezza o fama (Shir Ha-Shirìm Rabbà, 1.9 e Bet Yosef, 669).
R. Moshè Soloveitchik affermò che re Salomone era stato Chatàn
Bereshìt e non Chatàn Torà perché la sua felicità derivava dall’aver
ricevuto dall’Eterno il dono della sapienza (Re, I, capitolo 3). In tal modo
poté studiare nuovamente la Torà con maggiore profondità.
La promessa del dono che ricevette dall’Eterno fece di lui un
Chatàn Bereshìt. Pertanto si usa leggere la parashà di Bereshìt subito
dopo la conclusione della lettura della Torà proprio per pubblicizzare il
fatto che ogni conclusione non è altro che un’introduzione a un nuovo
inizio. Lo prova il fatto che in molte comunità il Chatàn Torà stesso
fungeva anche da Chatàn Bereshìt.
L’importanza del Chatàn Torà
Rav Feivel Cohen di Brooklyn in una sua recente lezione ha spiegato
invece che la maggiore importanza del Chatàn Torà deriva dal fatto che
chi termina la lettura della Torà osserva l’istituzione (taqanà) dei Maestri
che introdussero l’obbligo di leggere la Torà ogni settimana e di
completarne la lettura nel corso dell’anno. Il Chatàn Bereshìt è invece un
semplice minhàg per mostrare quanto sia cara a noi la Torà e che appena
ne abbiamo terminato la lettura vogliamo subito iniziarla di nuovo.
In molte sinagoghe ashkenazite il Chatàn Torà viene dato al rav della
comunità, specialmente se si è prodigato durante tutto l’anno
nell’insegnare Torà. Il Chatàn Bereshìt viene invece dato a chi fa l’offerta
più elevata e i fondi vengono usati per la conduzione della sinagoga. Il
Chatàn Torà che conclude la lettura annuale della Torà è quindi un onore
superiore a quello del Chatàn Bereshìt che inizia il nuovo ciclo.
* * *
La Torà è insegnamento divino e pertanto non ha limiti. Per sottolineare
questa caratteristica e la sua importanza per il popolo d’Israele che, come
insegna R. Sa’adyà Gaon, è tale solo per aver ricevuto la Torà, quando
terminiamo il ciclo di lettura e di studio con la parashà di Vezot Ha-
Berakhà, dobbiamo subito cominciare a ristudiarla a un livello più elevato.
Note:
107 Si ringrazia il maskìl Jacov Di Segni per la revisione del testo.
108 Gli ashkenaziti per chiamare a sèfer il Chatàn Torà usano un testo
denominato “Reshùt Le-Chatàn Torà”.
109 R. Moshe Soloveitchik quando abitava in Russia prima di immigrare in
America usava farsi dare il Chatàn Bereshìt. Solo in America, affinché il Chatàn Torà non
fosse deprezzato, decise di accettare l’onore del Chatàn Torà.
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