LO SHABBÀT, SPOSA E REGINA
di rav Scialom Bahbout
Lo Shabbàt: un tempo per l’uomo
“E furono terminati i cieli e la terra e tutte le loro schiere… D. terminò nel
settimo giorno ogni Sua opera che aveva fatto e cessò nel settimo giorno
da ogni Sua opera che aveva fatto” (Bereshìt, 2: 1-3).
Nel Midràsh (Bereshìt Rabbà, 10)1 è scritto: Rabbì [Yehudà ha-
Nassì] pose una domanda a Rabbì Yishma’el figlio di rabbi Yossè: Gli
disse: hai sentito da tuo padre cosa significa: “Cessò nel settimo giorno”
(Bereshìt, 2:1)? È possibile [che il Creatore operò nel settimo giorno? La
Scrittura avrebbe dovuto dire “D. terminò nel sesto giorno” (Etz Yosef)].
[R. Yishma’el rispose] È come una persona che colpisce l’incudine con il
martello, lo solleva quando è giorno e lo cala quando è scesa l’oscurità2.
R. Zev Wolf Einhorn (Grodno, m. 1862) detto Maharzu, spiega
che D. non fece nulla nel settimo giorno: è come il martello che viene
sollevato quando è giorno e quando scende l’oscurità il martello cade da
solo per forza di gravità.
Nello stesso Midràsh, Rabbì Shim’òn bar Yochài diceva: “L’uomo
che non conosce i propri tempi, i propri momenti e le proprie ore deve
aggiungere (un po’ di tempo) dal giorno profano al giorno sacro; ma il
Santo, benedetto Egli sia, conosce i propri tempi, i propri momenti e le
proprie ore e può quindi cogliere (ogni momento) con la massima
precisione”.
Il Midràsh prosegue [con un episodio tra il saggio] Ghenivà e i
Maestri: “Ghenivà portava questa parabola: C’era una volta un re che
aveva fatto un baldacchino nuziale e lo aveva abbellito con disegni e
incisioni: cosa gli mancava? Una sposa che vi entrasse. Allo stesso modo:
cosa mancava al mondo? Lo Shabbàt.
I Maestri portavano invece questa parabola: C’era una volta un
re che si era fatto un anello; cosa mancava all’anello? Un sigillo: cosa
mancava al mondo? Il sigillo del Sabato”.
Il Midràsh conclude la discussione sulla domanda posta da Rabbì
Yehudà ha-Nassì con questa affermazione: Questa è una delle cose che
i traduttori in greco cambiarono per re Tolomeo, e per evitare
incomprensioni tradussero: “D. terminò nel sesto giorno e riposò nel
settimo giorno”.
Analizzando il testo della Torà, i Maestri del Midràsh si chiedono
come sia possibile che il Creatore abbia terminato la Sua opera nel
settimo giorno, quando aveva già cessato e interrotto ogni opera?
Sarebbe stato facile risolvere la contraddizione, come avevano fatto i
settanta saggi che avevano tradotto la Bibbia in greco (Meghillà, 9a) e
viene qui ripetuto: “D. terminò nel sesto giorno la Sua opera… e cessò nel
settimo giorno dalla Sua opera”. Per i Maestri, abituati da sempre a
cimentarsi con i testi più oscuri, una difficoltà, piuttosto che proiettare
un’ombra sul testo, è un’occasione per gettarvi maggiore luce.
La risposta si basa sull’idea che D. è padrone del tempo e può
quindi sospendere la Sua azione nel momento esatto in cui inizia il
Sabato, senza sconfinare nel giorno successivo. All’uomo non è data
questa facoltà: ecco perché egli deve far iniziare lo Shabbàt il venerdì
qualche minuto prima del tramonto. Per quanto riguarda la “lettura” e
la “percezione” della realtà, l’uomo non ha la possibilità di fermare il
tempo nel momento del passaggio dal sesto al settimo giorno. Per
l’uomo nel momento del passaggio è già il settimo giorno!
Shabbàt: regina e sposa
Ghenivà e i Maestri hanno due opinioni diverse e paragonano lo Shabbàt
a una sposa e a un sigillo: la cessazione dall’opera da parte di D. fa parte
integrante della creazione, ma il rapporto tra il Sabato e il mondo viene
interpretato in due modi diversi. Il mondo e i sei giorni della settimana
sono come un baldacchino nuziale che serve solo ad accogliere il Sabato:
come un baldacchino senza sposa non ha alcun senso, così il mondo
senza il Sabato non ha alcun valore. L’anello, invece, ha un valore in sé,
ma nessun re metterebbe al proprio dito un anello senza sigillo: il Sabato
è il sigillo creato per rendere il mondo più bello e più vivibile.
Due modi diversi di vivere il Sabato: per chi è completamente
immerso nella vita lavorativa e si trova irretito “nell’anello dei sei giorni
della settimana”, l’arrivo del Sabato interrompe un ciclo produttivo e
imprime il suo sigillo di qedushà alla vita; per chi, invece, vive tutta la
settimana in funzione dello Shabbàt e cerca di infondere il suo spirito in
ogni momento della settimana, il Sabato è il centro dell’esistenza che
dona la sua qedushà a ogni istante.
La rappresentazione dello Shabbàt come Sposa e Regina, così
frequente nei canti dedicati al Sabato, è ampiamente utilizzata dai
Maestri della scuola di Safed: l’inno “Lekhà dodì”, con cui si accoglie il
Sabato in tutte le sinagoghe e che fu scritto da rabbì Shelomò Alkabetz,
un allievo di rabbì Yitzchàq Luria, ha le sue radici nel Talmud.
Infatti nel trattato Shabbàt (119a) è scritto: “Al tramonto del
venerdì sera, Rabbì Chaninà si vestiva elegantemente, si alzava ed
esclamava: Andiamo e usciamo ad accogliere la Regina Shabbàt. Alla
vigilia dello Shabbàt, Rabbì Yannài si rivestiva ed esclamava: Vieni, o
sposa. Vieni, o sposa!”. Sempre a Rabbì Chaninà viene attribuita un’altra
affermazione che univa le due qualità di “Sposa” e di “Regina” del
Sabato: egli era solito dire: “Andiamo e usciamo incontro alla Sposa
Regina!” (Bavà Qamà, 32b).
L’appellativo di “Regina” può prestarsi a diverse interpretazioni:
infatti, non si capisce se il Sabato sia la “Regina del Mondo” (“fin da
tempo antico”, cioè fin dalla creazione); oppure se sia la “Regina di
Israele” per le sue virtù intrinseche; oppure ancora se il Sabato sia
“Regina per Israele”, cioè per merito di Israele, i cui figli sono chiamati
“Benè melakhìm” (principi).
La caratteristica dello Shabbàt come “sposa”, come afferma
Rabbì Shim’òn bar Yochài (Bereshìt Rabbà, 11: 8), è invece da riferirsi
chiaramente a Israele: “Disse il Sabato di fronte al Santo, benedetto Egli
sia: Padrone del mondo, tutti i giorni della settimana hanno un
compagno, ma io non ho un compagno!3 Rispose il Signore: “Israele sarà il tuo compagno”. E come i figli d’Israele si presentarono di fronte al Monte Sinai, il Signore disse loro: “Ricordatevi ciò che dissi allo Shabbàt; «l’Assemblea d’Israele sarà il tuo compagno», questo è il significato di quanto è detto (Shemòt, 20: 8): “Ricorda il giorno del Sabato per
santificarlo”(Bereshìt Rabbà, 11: 8).
Il Sabato, promessa sposa alla sua vigilia, diventa sposa d’Israele
con il qiddùsh del venerdì sera (qiddùsh e qiddushìn, matrimonio,
derivano dalla stessa radice). L’isolamento del Sabato e quello d’Israele
vengono così rotti da questa unione.
‘Òneg Shabbàt: il piacere del Sabato
Nei Dieci Comandamenti troviamo scritto: “Per sei giorni farai tutta la tua
opera, ma il settimo giorno... non farai alcuna opera”. I Maestri si
chiedono come sia possibile completare tutta la propria opera durante
i sei giorni della settimana: infatti, rimane sempre qualcosa di
incompiuto, che dovrà essere perfezionato nella settimana successiva.
Tutto dipende dal modo con cui si accoglie il Sabato: l’uomo non
deve vivere questa giornata come un intermezzo per recuperare le
energie in vista della ripresa delle attività nei sei giorni successivi, ma
come un momento a se stante, in cui il riposo sabbatico non viene
turbato da nessun pensiero che riguardi il lavoro; deve vivere il suo
Sabato come se tutta la sua opera fosse davvero conclusa, tanto da poter
applicare a se stesso le parole riferite alla creazione divina “furono
terminati i cieli e la terra e tutte le loro schiere”.
Dalla Torà impariamo che il lavoro umano è fondamentale, in
quanto attraverso di esso l’uomo collabora alla creazione divina: però,
attraverso strumenti appropriati e modelli di comportamento esclusivi,
il Sabato assolve a una funzione equilibratrice che fa uscire l’uomo da
un’esistenza proiettata esclusivamente nel mondo della creatività fisica
e lo inserisce in quello della creatività spirituale e sociale.
Con l’arrivo del Sabato l’ebreo entra in un clima di qedushà che
ha uno “spessore” maggiore di quello degli altri giorni, e che per essere
“respirato” ha bisogno di qualcosa di particolare. Secondo la terminologia
dei Maestri, all’entrata del Sabato viene riversata nell’uomo un’anima
supplementare (neshamà yeterà), che per potersi svelare pienamente ha
bisogno che l’uomo si prepari ad accoglierla non solo spiritualmente, ma
anche materialmente.
A proposito della differenza tra i pasti sabbatici e quelli dei giorni
feriali ecco un altro midràsh: Rabbi Yehudà ha-Nassì aveva invitato
l’imperatore Antonino4 di Shabbàt: questi aveva trovato particolarmente
gustoso il pasto del Sabato, nonostante fosse freddo, mentre quando lo
invitò a un pasto in un giorno feriale, che era caldo, si lamentò dicendo
che i cibi del Sabato gli erano piaciuti di più. Rabbi Yehudà rispose che
non avevano una delle spezie, lo Shabbàt: questo mancava sulla tavola
del Re! (Bereshìt Rabbà, 11: 4)
La tavola sabbatica, intorno alla quale si riunisce la famiglia e gli
ospiti che non dovrebbero mai mancare, non risplende solo perché
preparata in maniera diversa dagli altri giorni (con una tovaglia pulita, un
tovagliolo speciale per coprire le challòt , i pani del Sabato, il bicchiere del
qiddùsh, le candele dello Shabbàt), ma anche perché colma di cibi
prelibati, diversi da quelli che vengono messi a tavola nei giorni feriali.
L’idea che, per realizzarsi pienamente, la qedushà abbia bisogno di essere
accompagnata da particolari cibi da consumare in tre pasti sabbatici
obbligatori, può sembrare contraddittoria.
Gli ebrei non solo non hanno mai temuto di unire il piacere del
corpo a quello dello spirito, ma hanno sempre visto in questa unione la
meravigliosa completezza del Sabato. In questo si manifesta uno dei
fondamenti della vita ebraica che tende ad elevare il mondo materiale
facendogli assorbire una parte della qedushà del mondo superiore5.
‘Òneg Shabbàt, il piacere e la gioia del Sabato, è la composizione
meravigliosa del piacere del corpo con quello dello spirito, che spinge
l’uomo a cantare le zemiròt, i canti del Sabato.
Shabbàt e redenzione
Il Sabato ha la forza di liberare l’uomo dall’esilio in cui è costretto
durante la settimana, per immergerlo, seppure per una sola giornata, in
un’atmosfera di redenzione: “Ha detto Rav Yehudà a nome di Rav: se gli
ebrei avessero osservato il primo Sabato (cioè quello successivo ai giorni
in cui era stata data loro la manna), nessuna nazione avrebbe potuto
dominarli. Troviamo scritto: «Il settimo giorno accadde che alcuni uomini
del popolo uscirono per raccogliere (la manna) e non ne trovarono»
(Shemòt, 16: 27). Ma subito dopo è scritto: «Venne ‘Amalèq e combatté
con Israele» (Shemòt, 17: 8). Ha detto Rabbì Yochannàn a nome di Rabbì
Shim’òn bar Yochài: Se gli ebrei osservassero due Sabati (consecutivi)
verrebbero immediatamente redenti…” (Shabbàt, 118b).
La capacità di ’Amalèq di mietere vittime all'interno di Israele è
stata resa possibile solo dalla incapacità di una parte del popolo di
liberarsi durante lo Shabbàt dalle attività che svolgevano
quotidianamente: coloro che erano usciti dall'accampamento per cercare
la manna, erano rimasti interiormente schiavi anche nel giorno del
Sabato. Israele avrebbe potuto essere un popolo redento fin dalla nascita
e questo fatto lo avrebbe protetto, fornendogli una difesa dai nemici e
dalle tentazioni.
Rabbì Shim’òn bar Yochài afferma che la forza redentiva dello
Shabbàt non viene mai meno: se Israel avesse la forza di osservare due
sabati consecutivi, che rappresentano un minimo di stabilità e continuità,
nessuna forma di schiavitù esteriore potrebbe prevalere su chi ha
raggiunto una propria libertà interiore.
L’occasione persa dalla generazione del deserto che aveva
appena ricevuto la Torà, può essere riconquistata da ogni generazione.
Lo Shabbàt può sempre essere la porta della redenzione, perché esso
stesso, nella sua essenza più pura, è un’esistenza di redenzione.
L’azione dei Maestri è sempre stata tesa a far sì che facili
cambiamenti e aggiustamenti potessero far perdere allo Shabbàt la sua
identità: la costante cura con cui i Maestri hanno circondato lo Shabbàt,
ha fatto sì che più di quanto Israele abbia osservato (shamàr) lo
Shabbàt, lo Shabbàt ha conservato (shamàr) Israele.
1 In parentesi sono indicate le note dei commentatori del Midràsh.
2 Rashì ha una versione diversa del testo: “Colpisce col martello e lo solleva
quando scende l’oscurità”. Perché il Santo Benedetto conosce alla perfezione il
momento in cui cessare.
3 La protesta dello Shabbàt si basa sul fatto che i sei giorni della settimana
erano organizzati in due gruppi: nei primi tre giorni viene creata la struttura (La luce, la
terra, il cielo) negli altri giorni viene creato il contenuto: i luminari, gli animali del cielo
e infine gli animali della terra. Il Sabato rimaneva senza compagno: viene quindi affidato
a Israel, la cui creazione era già nel progetto della creazione stessa.
4 Su chi fosse Antonino vi sono varie congetture. C’è chi dice che fosse
l’imperatore Marco Aurelio (Marcus Aurelius Antoninus); altri che fosse Settimio Severo
che si adottò nella famiglia degli Antonini o anche suo figlio Caracalla a cui diede nome
Marcus Aurelius Antoninus. Tutti e tre questi imperatori erano stati in Eretz Israel nel
corso delle loro spedizioni militari contro i Parti (n.d.r.).
5 Una halakhà rappresenta bene questa idea: “En qiddùsh ella bimkom
se’udà”: non si può fare il qiddùsh (la santificazione del Sabato sul vino) se non nel luogo
in cui si svolge anche il pasto.
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