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Linguaggio e assimilazione


di Donato Grosser


Prima di parlare di qualunque argomento, e in particolare di cose ebraiche, è utile ricordare l'importanza del linguaggio e l'attenzione che deve essere prestata ai termini che usiamo quando esprimiamo dei pensieri. I Maestri spiegano che l'essere umano si distingue dagli animali appunto per la capacità di comunicare con un linguaggio. Il Targum Onkelos, la traduzione aramaica della Torà, traduce il versetto: "Vayehì ha-adam le-nefesh chayà" (“L’uomo divenne uno spirito vivente”) con le parole "Vahawat ba-adam le-ruach memallela" "Ruach memallela" significa "spirito parlante" cioè pensante (Bereshìt, II, 7).




Il linguaggio che usiamo mostra chi siamo

Rav Israel Meir Ha Cohen (Polonia, 1838 - 1933) dedicò gran parte della sua attività a scrivere e diffondere la sua opera "Chafètz Chayìm", nella quale riassume e presenta gli insegnamenti della Torà scritta e della Torà orale riguardanti la gravità della trasgressione e dei danni che si causano quando si parla in modo dispregiativo del prossimo. Nella Torà è scritto: “Non andare in giro a sparlare nel tuo popolo” (Vaykrà, 19:16) e nel Talmud Babilonese (Arakhìn 15b) R. Yochanan a nome di R. Yosè insegna che “Chi sparla del prossimo è come se avesse negato la divinità”.


Il linguaggio che usiamo mostra più di ogni altra cosa chi siamo. Nello trattato Pesachìm (3b) viene menzionata la distribuzione del “Lèchem Hapanìm”, i pani che erano sul Shulchàn che si trovava nel Bet Ha-Miqdàsh, e che venivano distribuiti ogni Shabbàt tra i Kohanìm di turno. Uno dei Kohanìm affermò di aver ricevuto un pezzo di pane delle dimensioni di una “coda di una lucertola”. Il fatto che questo Kohèn menzionò nel Bet Ha-Miqdàsh un animale impuro, fece una pessima impressione al Bet Din dei Kohanìm che verificarono il suo background e trovarono un motivo che lo squalificava.


Il linguaggio e i termini che usiamo evidenziano anche il nostro modo di pensare e le ipotesi sulle quasi basiamo le nostre opinioni. La scelta delle parole è molto importante e non può quindi essere lasciata ad altri; non possiamo adottare senza verifica le espressioni usate dai giornali e da altri mezzi di comunicazione, perché il linguaggio quando

diventa abituale influenza il nostro modo di pensare.


Linguaggio e opinione pubblica


Nel 1957 Vance Packard pubblicò il suo bestseller "I persuasori occulti" nel quale ipotizzava che la pubblicità era diventata tanto influente da poter cambiare il comportamento dei consumatori. L'ipotesi si rivelò esagerata, tuttavia il libro sottolineò giustamente l'importanza del linguaggio pubblicitario nell'influenzare il modo di pensare e le decisioni di acquisto del pubblico.


Anche il linguaggio del mondo della politica e della cultura ha avuto una forte influenza sull’opinione pubblica. Dopo la seconda guerra mondiale e la distruzione causata in vent'anni di fascismo in Italia, il mondo culturale è stato dominato dal linguaggio della sinistra intellettuale: la parola "Resistenza", usata per definire l’opposizione al regime fascista, dopo il 1967 venne usata da politici di sinistra per definire i terroristi arabi. Il fatto che questi terroristi fecero stragi di bambini di scuola ebrei a Ma’alòt o che fecero esplodere in aria un aereo della Swissair con i passeggeri non era considerato rilevante. Un termine usato per una causa nobile venne così utilizzato per definire in modo positivo degli assassini. Non c’è dubbio che gran parte del pubblico che non conosce la storia e la situazione del Medio Oriente sia stato influenzato da questo linguaggio.


Oggi accade spesso che la stampa eviti di usare il termine “terroristi” e usi invece parole come “militanti”, “guerriglieri” e “radicali”. Harold Evans, in un suo recente libro osserva che nella lingua inglese sia diventato abituale l’uso della parola “credit” per annunciare i responsabili di atti terroristici. La parola “credit” egli osserva, per cinquecento anni è stata usata con il significato di “onore”. Ora invece nella stampa e alla radio e televisione viene annunciato che “nobody took credit for the bombing”, come se si trattasse di un segno di onore assassinare la gente. La scelta delle parole può decidere chi vincerà la lotta per convincere l'opinione pubblica. È quindi cruciale opporsi fin dall'inizio all'uso di termini che falsificano la realtà. La stampa occidentale usa molto di frequente il termine "ultraortodosso" per parlare degli ebrei fedeli alla Torà. "Ultrà" è un termine negativo usato durante il conflitto franco algerino per definire la destra politica che reclamava "L'Algerie Francaise". Perché usare il termine “ultraortodosso” quando basta usare il termine “ortodosso” per parlare delle stesse persone? Quando certe persone usano termini come "ultraortodossi" lo fanno per pregiudizio o per aver assorbito nella propria mente questa parola senza pensare al significato del termina “ultra”. L’effetto di questo termine e che pian piano gli ebrei ortodossi vengono demonizzati. Nel triste passato questa era stato lo scopo e delle leggi razziali.

La parola "Estremista" è diventata oggi un insulto comune nel linguaggio politico. Sappiamo però dalla nostra lunga storia che in molti casi è cosa lodevole porsi all'estremità dell'arena politica o intellettuale.


Il primo esempio è quello del nostro patriarca Avraham che era chiamato "Ivrì" ovvero “Ebreo” perché al contrario dei suoi contemporanei che erano idolatri, Avrahàm era il solo a sostenere l'idea che il mondo aveva un solo Creatore. “Ivri” deriva dalla radice "’Ever" che vuol dire "sponda". Avrahàm stava all’opposizione ed era visto come un estremista. Il suo impegno era quello di diffondere la verità e combattere "... gli dei falsi e bugiardi". Un ebreo fedele ai propri principi, merita di essere chiamato “coerente ai principi etici della Torà” invece che con il dispregiativo “estremista”.

Quando Moshè Rabbenu scese dal Monte Sinai e trovò il popolo che adorava il vitello d'oro, chiamò attorno a sé la tribù di Levi e con loro istituì dei tribunali per condannare i colpevoli di idolatria (Shemòt, 33: 26-28 e commento del Ramban). Se Moshè si fosse comportato da uomo politico moderno avrebbe scelto un compromesso, come un'amnistia di massa, invece di optare in modo "estremista" nel far valere i principi eterni ricevuti dal Creatore al Monte Sinai.

In modo simile agì Pinechàs quando prese l'iniziativa contro Zimrì che aveva contravvenuto in pubblico ai precetti della Torà prendendo una principessa midianita (Bemidbàr, 25:7-15). Moshè e Pinechas s alvarono il popolo ebraico anche se la stampa di oggi avrebbe descritto il loro comportamento in modo dispregiativo come "estremista".


Essere "Ivrì" e porsi sull'altra sponda dell'arena politica o intellettuale significa anche rendersi conto che "La voce è quella di Ya’aqòv e le mani sono quelle di Esaù" (Bereshìt, XXVII, 22). Gli ebrei fedeli all'insegnamento dei nostri Maestri sanno che la nostra lotta secolare per sopravvivere come ebrei, è stata basata sull'uso delle parole e degli scritti. Forse anche per questo i Nostri Maestri insegnarono che “Il nostro patriarca Ya’aqòv non è morto” (T.B., Ta’anìt, 5b).


Assimilarsi senza rendersene conto


I nostri antenati in Egitto, riuscirono a mantenere la loro identità ebraica per oltre duecento anni di esilio grazie al fatto che mantennero la propria lingua, il modo di vestire e i propri nomi.

Quando parliamo di "lingua" è importante tenere conto che non si tratta solo dell'italiano o dell'inglese a confronto della lingua parlata dagli ebrei (ebraico, yiddish o ladino). È importante evitare di tradurre dei concetti ebraici nella lingua del paese perché il più delle volte i concetti così tradotti rappresentano concetti diversi da quelli originali ebraici. Se non controlliamo attentamente il linguaggio che assorbiamo e che usiamo di giorno in giorno, questo linguaggio può diventare un potente strumento di assimilazione.


Negli Stati Uniti non è raro che perfino nei giornali e nelle riviste pubblicate da ebrei osservanti appaiano parole come "conclave" per descrivere un incontro al quale hanno partecipato dei rabbanìm, senza rendersi conto che il conclave è per definizione la riunione fatta a scopo di eleggere un nuovo pontefice.




In alcune discussioni di Halakhà, qualcuno ha chiesto se durante i trentatré giorni dello ‘Omer quando è proibito ascoltare musica, sia permesso ascoltare la musica “a cappella”, cioè musica cantata da un coro senza strumenti musicali.


In alcune sinagoghe si può andare a fare tefillà nel “Temple” ossia nella sinagoga principale, oppure durante i giorni feriali quando c’è poco più che un minian di persone, nella “chapel” (cappella).


In un recente opuscolo promozionale di un albergo cascer nello stato del New Hamphsire è scritto che loro ristorante “is the kosher epicurean’s main attraction” (È la maggiore attrazione dell’epicureo casher)! Tutto questo per avere assorbito un termine senza sapere chi era Epicuro e quale era la sua filosofia.


Nella Torà l’omosessualità è descritta come to’evà, cosa abominevole. Nel cercare di rendere questo comportamento accettabile stato coniato l’eufemismo “gay” che significa “gaio”, “felice”. Questo termine è entrato nell’uso comune nella stampa quotidiana e appare spesso anche nella stampa ebraica. I redattori non si rendono conto che in questo modo rendono “cascer” un comportamento proibito dalla Torà.


La semikhà, con il quale viene conferito il titolo di Rav, viene spesso tradotta con l’inglese “ordained”. La semikhà conferisce il permesso (reshùt) di dare decisioni di Halakhà e non ha nulla a che fare con gli “ordini sacri” che ricevono i preti.


Nella Masèkhet Sofrìm (1:7), un trattato redatto durante il periodo post-talmudico, è scritto che “il re Tolomeo raduno settantadue anziani e li confinò in settantadue camere separate, senza dire loro il motivo per cui li aveva convocati. Visitando ognuno di loro separatamente chiese loro «di trascrivere la Torà di Moshè vostro maestro». L’Onnipresente diede ispirazione ad ognuno di loro e tradussero il testo [in greco] in modo uguale con le stesse tredici modifiche”.


Il digiuno del 10 di Tevèt fu decretato per tre motivi e uno di questi fu per la disgrazia causata dalla traduzione della Torà in greco. La prima delle selichòt del 10 di Tevèt inizia con queste parole:


Ricordo la disgrazia che mi capitò in questo mese quando (l’Eterno) mi ha colpito tre volte [...] e il re greco mi ha forzato a scrivere la Torà in lingua greca.

La traduzione in lingua greca, e poi la traduzione dal greco al latino, diede la possibilità agli ignoranti di vantarsi a torto di capire il significato di quello che è scritto nella Torà. Presentate come se fossero fedeli traduzioni della Torà, la traduzione in lingua greca e successivamente quella dal greco al latino hanno storpiato i concetti della Torà e condotto il lettori nell’errore.


Anche Dante Alighieri si rendeva conto della manchevolezza delle traduzioni. Egli scriveva nel Convivio (I, 7): “E questa è la cagione per che li versi del Salterio (i Tehillìm) sono sanza dolcezza di musica e d’armonia; ché essi furono trasmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e nella prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno”.


La forzata traduzione di termini che non possono essere propriamente tradotti è uno dei primi passi verso l'assimilazione. All'inizio è possibile ci rendiamo conto che le parole che usiamo nella lingua del paese sono delle traduzioni imprecise. Con l'andar del tempo gli ebrei meno colti cadono nell'errore e finiscono per identificare le parole usate nella lingua del paese con i concetti della lingua del paese. In questo modo gli ebrei meno colti cominciano a pensare come a dei gentili, a sentirsi a disagio come ebrei e ad allontanarsi progressivamente dalla Torà e dalle mitzwòt.


Alfonso Pacifici e l’importanza del linguaggio

Alfonso Pacifici (1889-1981), il più profondo e originale pensatore ebreo italiano del Novecento, nel 1911 diede vita a Firenze a un movimento per il ritorno alla Torà e alle mitzwòt che condusse un gruppo di persone a una vita ebraica e alla 'alià in Eretz Israel. Rendendosi conto dell'importanza del linguaggio, Pacifici si sofferma sulla definizione dei termini. In Israel Segullà egli scrive:


Per tornare alla riaffermazione concreta ... del sistema di vita della Torà.... prima di tutto s’imporrà la necessità di un’accuratissima revisione terminologica, cioè il fare sempre attenzione a evitare sistematicamente l’uso di nomi inesatti, come appunto religione, nazione e altri, rendendosi conto che i nomi posseggono in sé un’enorme potenza formativa o deformativa e che perciò se non si sia riusciti, preliminarmente, a eliminare del tutto l’uso dei nomi inesatti, anche se consacrati dall’uso, anzi particolarmente allora, non si avrà nessuna speranza di riuscire a rieducare alla chiara coscienza della verità.


Riguardo all'uso delle parole "religione israelitica" lo definisce un termine improprio e una "camuffatura pseudo-ecclesiastica del vuoto portato dall'assimilazione". Quanto alla parola "religione" egli la definisce come...


...quell'insieme di ordinamenti che furono introdotti, in Italia, in Francia e in generale nei paesi dell'Europa occidentale e più tardi anche in America e in altri paesi della Dispersione, dai primi dell' 800, cioè dopo l'emancipazione, con l'intenzione esplicita di fare assomigliare le manifestazioni della vita sinagogale alle cerimonie del culto dominante in quel determinato paese; baté kenesioth costruiti a somiglianza di chiese, con la tevà somigliante, per forma e per collocazione, all'altare; le vesti ecclesiastiche dei rabbini, degli officianti, dei coristi; i cori, disciplinati, con motivi nuovi, di origine artificiosa e d'imitazione forestiera, sostituitisi al canto spontaneo di tutto il pubblico; gli officianti fissi e stipendiati, al posto del sistema tradizionale, che uno qualunque del pubblico si alzasse spontaneamente ogni volta per dire la tefillà ad alta voce; l'organo; la terminologia di tipo ecclesiastico: officiatura, preghiera, servizio, predica; in Francia perfino baptéme per milà, communion per bar mizvà. Nell'insieme tutto quel vuoto, gelido formalismo, tutta quella compassata disciplina chiesastica, così lontana dalla vera e viva tradizione ebraica, quale si ritrova ancora, negli ambienti chassidici specialmente, o anche, presso i non ashkenazhim, in quei paesi o gruppi dove l'assimilazione non è arrivata - tutto quell'insieme che a quelli di noi che hanno avuto la fortuna di bere novamente alle pure sorgive o si sono riabituati, o sono stati sempre abituati, a una tefillà tradizionale veramente e vivamente ebraica, rende intollerabile la presenza in un beth hakkenéseth a imitazione forestiera, e quasi impossibile la tefillà in quello.....


Nell’Ottocento in Germania, Shimshon Refael Hirsch (1808-1888), rav della comunità osservante di Francoforte, dedicò gran parte della sua attività rabbinica a recuperare ebrei che, attratti dai riformatori, si erano quasi totalmente assimilati alla società circostante.


Diversi discorsi di Rav Hirsch furono dedicati alla scelta delle parole. In alcuni di essi contesta l'uso della parola religione in discorsi di argomenti ebraici. "Religione" definisce l'idea che i popoli hanno della divinità. In questo senso gli ebrei non hanno una religione. La Torà è l'insegnamento del Creatore che dice a noi come dobbiamo comportarci in questo mondo. Non ci dice nulla sulla divinità perché un essere umano non può sapere nulla del Creatore.


Anche nella nostra generazione R. Joseph Beer Soloveitchik affermò che gli ebrei

non hanno una Teologia perché non sappiamo nulla del Creatore. Egli si oppose strenuamente al cosiddetto “Dialogo interconfessionale” sottolineando che le differenze tra ebrei e gentili rendevano impossibile un linguaggio comune su argomenti religiosi. In un saggio intitolato “Confrontation”, pubblicato nel 1964 (in Tradition, vol 6:2) egli scrisse in modo esplicito che non era possibile alcun dialogo con altre religioni e che discussioni o incontri su argomenti religiosi erano vietati.


Alfonso Pacifici aveva capito questo concetto già più di cent’anni prima quando scrisse: “La parola stessa italiana santo con cui abitualmente si rende la dizione ebraica kadosh ... non corrisponde [ad essa] né punto ne poco”.


Kadosh non significa santo; tefillà non significa preghiera, bet ha-kenèsset non è tempio; bet ha-chayìm non è cimitero; e infine la nostra Torà qedoshà non è religione.


Nei nostri scritti talvolta non abbiamo molta scelta nel tradurre certi termini in italiano e facciamo uso di quelli usati nel linguaggio comune. Dobbiamo quindi avvertire i lettori che quei termini sono stati presi a prestito in mancanza di meglio e che non riflettono il vero significato delle parole ebraiche.

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