Le componenti fondamentali della teshuvà
Il Rambam (Rabbi Moshè Maimonide, Spagna-Egitto, 1135-1204), nella sua opera Hilkhòt Teshuvà (2:1), introduce il concetto di “teshuvà ghemurà” o “pentimento completo”. Spiega che una persona può raggiungere un “pentimento completo” quando si trova di fronte alla stessa identica situazione in cui ha peccato e, nonostante provi lo stesso desiderio di peccare, riesce a controllarsi e desistere. Ciononostante, se una persona si pente solo dopo aver raggiunto l’anzianità, dopo che i suoi desideri si sono affievoliti, il suo pentirsi è accettato anche se non viene considerato come “pentimento completo”. Infatti, il Rambam enfatizza che, perfino se una persona si pente negli ultimi attimi prima di morire, la sua teshuvà è accettata.
Nel passaggio successivo, il Rambam ci presenta la definizione essenziale della teshuvà e le componenti base che tale processo comporta. Scrive che si deve “abbandonare” il peccato attraverso l’eliminazione dalla mente di tutti i pensieri ad esso riferiti e decidendo fermamente di non ripetere mai più quell’atto. Inoltre, il peccatore, deve provare un sincero e genuino rimorso per aver compiuto quell’azione sbagliata, ed esprimere a parole questi sentimenti. Il Rambam aggiunge, “…e Colui che conosce i misteri testimonierà su di lui che non lo ripeterà mai più.” A prima vista, potrebbe sembrare che il Rambam dica che, una volta che colui che ha peccato fa teshuvà, e si rammarica sinceramente per la sua azione sbagliata, il Signore, che conosce gli eventi futuri, può stabilire che non tornerà mai più sulla sua strada peccaminosa. In ogni caso, il Kèsef Mishnè (commento composto da Rabbi Yosef Caro, autore dello Shulchan Aruch) spiega in modo differente, affermando che colui che ha peccato debba, se così si può dire, chiamare HaShem come testimone del fatto che si è ripromesso di non ripetere mai più il suo peccato. Colui che si pente deve essere così risoluto nella sua decisione che deve poter essere in grado di chiamare HaShem come testimone del fatto che non ripeterà mai più ciò in cui ha sbagliato.
Nella terza alakhà, il Rambam enfatizza l’importanza e l’indispensabilità di una confessione verbale dei propri peccati e della risoluzione interna a cambiare. Scrive che se una persona confessa verbalmente quello che ha commesso di sbagliato senza fermamente decidere in cuor suo di non commettere mai più il peccato, è paragonabile a una persona che si immerge in un miqvè tenendo in mano il cadavere di uno shèretz (brulicante). Fin quando continuerà a tenerlo in mano, esso continuerà ad essere la causa e la fonte del suo stato di impurità rituale, non potrà mai quindi conseguire la purità rituale, non importa quante volte si immerga nel miqve. Allo stesso modo, non importa quante volte una persona faccia la confessione dei peccati e dichiari di aver agito in modo sbagliato, non potrà raggiungere la teshuvà senza aver prima deciso fermamente di voler cambiare. D’altro canto, non è sufficiente per colui che ha peccato, il ripromettersi di cambiare la sua condotta senza confessarsi a parole. Il Rambam cita a questo punto la supplica di Moshè nei confronti di HaShem, dopo che il popolo aveva commesso il peccato del vitello d’oro, in cui dichiara, “Per favore, questa nazione ha commesso un grave peccato – hanno fatto un idolo d’oro” (Shemot 32:31). Da questo verso impariamo che colui che ha peccato deve confessare verbalmente e specificare quale peccato ha commesso.
Riassumendo: il processo di teshuvà comprende una confessione verbale, sincero pentimento, e la piena fermezza nel non voler più commettere il peccato. Un peccatore raggiunge il più alto livello di teshuvà quando si trova esattamente nella stessa situazione in cui ha originariamente peccato, è ancora tentato a peccare ma si astiene dal farlo. In ogni caso, anche se una persona si pente in età anziana, quando non ha lo stesso impulso di commettere il peccato, il suo pentimento è valido e accettato da HaShem.
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