LA SCINTILLA INTERIORE
Elchanan Klagsbald
Introduzione
Nel profondo del cuore di ogni un ebreo vi è una scintilla interiore
totalmente pura dal peccato e dal male. Questo punto non può essere
nemmeno toccato dal male. Perfino se, D. non voglia, un ebreo cade dal
suo livello spirituale, e si macchia di peccati e di tratti caratteriali
perversi, questa scintilla non potrà mai venire contaminata.
Secondo i commentatori1, questo è il significato del versetto: “[D.
dice:] Non li disprezzerò e non li respingerò fino ad annientarli”2: la bontà
di un ebreo non può mai essere completamente soppressa, e chiunque
discenda dai Patriarchi Avrahàm, Yitzchàq e Ya’aqòv, eredita da loro e
possiede nel suo profondo dell’anima una scintilla della loro qedushà e
tahorà (purezza), che non si estinguerà mai. Grazie a questo punto puro,
un ebreo può fare una teshuvà (pentimento e ritorno) completa
diventando interamente puro.
Si narra riguardo al Gaòn di Vilna che, una volta, mentre
alloggiava in una locanda ebraica, al suo pasto partecipò anche un ebreo
che aveva abbandonato l’osservanza delle mitzwòt. Quando questo
ebreo rinnegato stava per cominciare a mangiare, il Gaòn di Vilna gli
disse di pronunciare la benedizione prima di mangiare.
L’ebreo scoppiò a ridere, poiché non capiva che legame potesse
avere lui con qualsiasi idea di “benedizione”, e rispose: “In ogni caso non
osservo niente della Torà; non osservo i precetti più grandi e nemmeno
quelli più piccoli”. Il Gaòn replicò: “Sappi, comunque, che se ora tu dirai
una benedizione, avrai per questo una speciale ricompensa, nonostante
che tu ti sia scrollato di dosso il giogo della Torà; e se non dirai la
benedizione, finirai con l’essere colpito da una speciale punizione anche
per aver omesso questa benedizione”.
L’ebreo rinnegato acconsentì a recitare la benedizione, e da qui
si risvegliò interiormente fino a che, alla fine, tornò all’ebraismo con una
completa teshuvà.
Qui di seguito riportiamo alcuni passi dalla Torà che illustrano
l’effetto di questa scintilla interiore nel cuore di un ebreo e la sorte di
coloro che invece sono degenerati fino alla loro radice.
1 Come riportato da R. E. Dessler.
2 Wayqrà (26:44).
Il serpente nel Gan ‘Eden
Riguardo al serpente che indusse Eva e Adamo a peccare, è scritto:
“L’Eterno, il Signore, disse al serpente: «Dato che hai fatto ciò, sii tu
maledetto tra tutte le bestie e tra tutti gli animali del campo»”3.
Rashì spiega che, dalle parole ki ‘asìta zot, “dato che hai fatto ciò”, si
impara che non si cerca di difendere chi induce un altro a commettere
una trasgressione. In realtà, in sua difesa il serpente avrebbe potuto
benissimo portare come alibi il fatto che Adamo avrebbe dovuto dare
ascolto al Creatore e non al serpente, ma il Creatore non gli concesse la
possibilità di difendersi e lo punì.
Perché non si cerca di difendere colui che induce gli altri a
peccare? A volte, potrebbe avere delle argomentazioni accettabili!
Si può rispondere che, perfino quando un ebreo cade nella
trappola del peccato, nel profondo del suo cuore non vuole affatto
trasgredire, e la sola ragione per la quale è rimasto intrappolato è che la
sua inclinazione al male (yètzer harà’) è stata più forte di lui, ma la sua
vera volontà interiore era di non peccare mai, e dunque resta sempre in
lui una parte buona; per questo motivo, se pecca e viene portato al bet
din (tribunale rabbinico), i dayanìm cercano delle argomentazioni che lo
scagionino. Invece, chi induce gli altri al peccato, dal momento che non
ne trae nessun giovamento personale, sicuramente non è spinto dallo
yètzer harà’ che è stato più forte di lui ma dal fatto che, dall’inizio, non
era minimamente turbato dall’idea del peccato.
È sottinteso allora che non ci sia nessun merito in lui, e,
nonostante sia possibile che costui abbia delle argomentazioni in sua
difesa (come nel caso del serpente), non si prova a difenderlo.
3 Bereshìt (3:14).
Sodoma e Gomorra
Nell’introdurre l’episodio della distruzione di Sodoma e Gomorra4, la Torà
riporta: “I due angeli arrivarono a Sodoma verso sera, e Lot era seduto alla porta di Sodoma5; Lot [li] vide, si alzò per accoglierli e si prostrò con
la faccia a terra”6.
Rashì nota che è scritto yoshèv, (“siede”, al presente) senza la lettera
waw, per cui è come se fosse scritto yashàv, al passato, come a dire che
“si era appena seduto”, e spiega che proprio nello stesso giorno in cui gli
angeli arrivarono a Sodoma, i suoi abitanti misero Lot come loro giudice.
Perché la Torà deve specificare che proprio nel giorno in cui gli
angeli arrivarono a Sodoma, gli abitanti misero Lot come loro giudice, e
che rilevanza ha che Lot fosse il loro giudice?
La Torà vuole dirci la ragione per la quale D. punì gli abitanti di
Sodoma non solo attraverso prove e sofferenze, ma con l‘annientamento
totale. La loro malvagità arrivò al punto tale che, nonostante che essi
stessi misero Lot come loro giudice, nello stesso giorno in cui gli
assegnarono la carica, siccome egli ospitò gli angeli7, tutti i sodomiti,
senza eccezioni, vollero far del male al loro stesso giudice e ai suoi ospiti8.
Se essi avessero peccato solo perché lo yètzer harà’ era più forte
di loro, D. avrebbe inflitto loro prove e sofferenze, ma non li avrebbe
annientati completamente poiché nel profondo del cuore non volevano
peccare. Dalla loro punizione risulta che il loro comportamento malvagio
non era indotto solo dallo yètzer harà’ che fu più forte di loro, ma dal
fatto che fossero degenerati fino alla loro radice e che il loro modo di vita
corrispondesse al loro ideale e al loro scopo; D. quindi li punì con la
distruzione totale.
4 Vedi Bereshìt (cap. 19).
5 Lot (nipote di Avrahàm) era un giudice, e a quel tempo i giudici sedevano alle
porte della città.
6 Bereshìt (19:1).
7 Gli angeli apparivano come viandanti (n.d.r.); una delle norme della
città prevedeva che non si potessero avere ospiti (n.d.r.).
8 Vedi Bereshìt (19:2-9).
La vendita della primogenitura
Nella parashà di Toledòt è descritto l’episodio della vendita della
primogenitura di Esaù al fratello Ya’aqòv9, e l’episodio comincia con
questo versetto: “E Ya’aqòv stava cucinando una minestra, e Esaù giunse dal campo, ed egli [Esaù] era stanco”10. Rashì spiega che l’espressione
“era stanco” significa che egli “era stanco dall’uccidere (persone)”,
riportando la fonte del Libro di Geremia “Poiché la mia anima è stanca di
ucciderli”11.
Ci si chiede: perché la Torà specifica che Esaù era stanco proprio
dall’uccidere le persone?12.
La Torà vuole comunicarci la portata della malvagità di Esaù. In
genere, se una persona inciampa e cade dal suo livello spirituale e
comportamentale, perfino se cade rovinosamente arrivando a uccidere
un’altra persona per una qualche ragione, a un certo punto riconosce di
aver commesso un atto terribile. La Torà sottolinea che Esaù era stanco
proprio dall’aver ucciso delle persone per mostrare che per lui, perfino
dopo aver commesso un omicidio, l’unico problema era di essere stanco
e di voler mangiare lenticchie per ristorarsi.
9 Vedi Bereshìt (25:29-34).
10 Bereshìt (25:29).
11Yirmeyàhu (4:31).
12 Secondo il Midràsh Rabbà Esaù aveva ucciso il re Nimrod e le sue guardie.
Il disprezzo della primogenitura
Ancora riguardo all’episodio della vendita della primogenitura, è scritto:
“E Ya’aqòv diede a Esaù del pane e una minestra di lenticchie. [Esaù]
mangiò, bevve, si alzò e se ne andò; e Esaù [in questo modo] disprezzò
la primogenitura”13.
Rashì spiega che il versetto: “Esaù disprezzò la primogenitura”, vuole
testimoniare (anche in questo caso) la malvagità di Esaù, che disprezzava
il servizio della primogenitura nel Santuario14.
Perché la Torà deve portare un’ulteriore testimonianza della
malvagità di Esaù? La sua scarsa considerazione per questo grande
privilegio è già implicita in ciò che viene detto nel versetto precedente, in
cui si dice che Esaù vendette la primogenitura per un poco di lenticchie!
13Bereshìt (25:34).
14 In origine il servizio nel Tempio di Gerusalemme sarebbe spettato ai
primogeniti; fu trasferito ai sacerdoti, appartenenti alla tribù di Levi, in seguito al
peccato del Vitello d’Oro, al quale i Leviti non presero parte.
Zimrì e la midianita
Quando Ya’aqòv si trovava in fin di vita, chiamò i figli intorno a sé e li
benedisse; nella benedizione a Simeone e Levi egli disse: “L’anima mia
non sia associata con loro, possa il mio onore non essere identificato con
la loro congrega”15.
Rashì scrive che l’espressione “la mia anima non sia associata con loro”
si riferisce alla vicenda futura di Zimrì, quando Zimrì e i suoi compagni si
recarono da Moshè con una donna midianita e dissero a Moshè: “Moshè,
questa [donna] è proibita o permessa [come moglie]? Se dici che è
proibita, chi ti ha permesso la figlia di Yitrò [che era una midianita]?”16
Ya’aqòv pregò affinché il suo nome non fosse menzionato in questo
episodio, e per questo è scritto “Zimrì figlio di Salù, capo della tribù di
Simeone”17, e non è scritto ulteriormente “figlio di Ya’aqòv”. Rashì
prosegue spiegando che l’espressione del versetto “con la loro congrega”
si riferisce alla congrega di Qòrach: Ya’aqòv chiede che quando Qòrach,
della tribù di Levi, avrebbe in futuro radunato tutta la sua gente contro Moshè e Aharon18, il suo nome [di Ya’aqòv] non fosse associato a loro,
ossia che non fosse menzionato, e infatti è scritto: “Qòrach figlio di
Itzhàr, figlio di Qehàt, figlio di Levi”19 e non ulteriormente “figlio di
Ya’aqòv”.
Perché Ya’aqòv non voleva che il suo nome fosse menzionato
assieme ai malvagi? Non si trova nessuna parte della Torà in cui si dica
che Ya’aqòv badasse al suo onore personale!
Si può rispondere che anche se una persona pecca e macchia la
sua anima, D. non voglia, resta sempre in lei una scintilla interiore di
purità, nella quale si trovano anche i caratteri positivi dei Patriarchi, che
si tramandano di generazione in generazione, e dunque anche i tratti di
Ya’aqòv. Egli non voleva che il suo nome venisse menzionato assieme ai
malvagi perché, se fosse stato menzionato, sarebbe stata contaminata
anche questa scintilla pura, e le buone qualità del Patriarca sarebbero
state completamente sradicate dai due malvagi.
Ya’aqòv pregò affinché Zimrì e Qòrach non peccassero fin dalla
radice interiore del loro cuore ma che restasse comunque in loro la
scintilla interiore, in maniera da renderli in grado di tornare sui loro passi
con una completa teshuvà.
15 Bereshìt (49:6).
16 Vedi Bemidbàr (25:1-9). Zimrì era capo della tribù di Simeone, e prese una
donna midianita per dimostrare, con tono sprezzante, che le midianite erano permesse
agli uomini ebrei. Il idivieto di sposare donne midianite fu stabilito dopo il Dono della
Torà al Monte Sinai, quindi dopo che Moshè ebbe sposato la midianita Tzippora.
17 Bemidbàr (25:14).
18 Qòrach era cugino di Moshè e Aharon; egli sobillò un’intera congrega contro
Moshè e Aharon, rivendicandone i diritti. Vedi Bemidbàr (16:1-3).
19 Bemidbàr (16:1).
I delatori in Egitto
Moshè si era recato in Egitto a constatare la condizione di schiavitù degli
ebrei. Un giorno vide un egizio che colpiva un ebreo, e uccise l’egizio. Un
altro giorno vide un ebreo che colpiva un altro ebreo e lo rimproverò;
allora “[il cattivo] disse: Chi ti ha messo come uomo principe e giudice su
di noi? Forse che vuoi uccidermi, come hai ucciso l’egizio?» Moshè ebbe
paura e disse: «Dunque la cosa è nota»20“.
Rashì spiega che Moshè aveva paura perché aveva visto che tra gli ebrei
c’erano anche dei delatori, e pensò che forse, a causa di ciò, da quel
momento non sarebbero più stati meritevoli di essere liberati.
Questo sorprende, perché prima ancora che delatori, gli ebrei in
Egitto erano addirittura idolatri come gli egizi21, e allora perché Moshè si
preoccupava proprio del fatto che fossero delatori?
La ragione per la quale gli ebrei in Egitto arrivarono a diventare
idolatri era che, attraverso l’influenza degli egizi, il loro yètzer harà’ ebbe
il sopravvento su di loro, ma in verità è possibile che nel profondo del
cuore fossero ancora rimasti attaccati al bene e che volessero ancora
procedere nella giusta via. Invece, riguardo al denunciare il proprio
compagno, quale beneficio personale ne può trarre un ebreo?
Il delatore non agisce solo per lo yètzer harà’, come l’idolatra,
ma perché non gli interessa affatto restare legato al bene. Dunque,
nonostante che commettere idolatria sia uno dei divieti più rigidi, il
comportamento dei delatori era più preoccupante, e forse a causa loro
gli ebrei non meritavano più la redenzione.
20 Shemòt (2:14).
21 Vedi Midràsh Shochàr Tov (15:5).
Gli idoli sono nullità
È scritto: “Non rivolgetevi agli idoli e non fatevi divinità di metallo fuso;
Io sono l’Eterno, vostro Signore”22.
Rashì spiega che il testo dice di non rivolgersi agli idoli “allo scopo di
servirli”; la parola elilìm (divinità) deriva da al, che significa “non”; da qui
risulterebbe che queste divinità siano solo nullità. Poi il versetto
prosegue con le parole elohè massekhà (divinità di metallo fuso): per
Rashì questo significa che non è vero che le divinità siano nullità ma che
sono degli dei, solo che all’inizio sono nullità, ma se una persona si
rivolge a loro, alla fine diventano veramente un dio.
Qual è la ragione per cui la Torà sottolinea che anche se all’inizio
non hanno nessuna importanza, alla fine questi elilìm diventano come un
dio? L’obbligo è quello di prendere comunque le distanze dall’idolatria di
per sé, a prescindere dal fatto che gli elilìm acquisiscano o meno la
rilevanza di una divinità, e che differenza fa se alla fine ai nostri occhi
assumono il valore di un dio?
Un ebreo, nel profondo del suo cuore, sa che il Signore è il vero D. e che l’idolatria è nullità; dunque, se anche lo yètzer harà’ spinge
l’ebreo all’idolatria, nel momento in cui egli diventa consapevole che,
agendo così, alla fine l’idolatria diventerà un valore e assumerà
veramente importanza ai suoi occhi, se ne allontanerà perché non è ciò
che egli desidera interiormente.
22 Wayqrà (19:4).
La ribellione di Qòrach
Dopo che D. punì tutta la congrega di Qòrach per la ribellione23, Moshè
e Aharon “caddero sul loro volto [per pregare] e dissero: «Signore, D.
degli spiriti di ogni [essere fatto di] carne, [se] un [solo] uomo pecca, puoi
Tu adirarTi con tutta la comunità?»”24.
Rashì spiega che l’espressione “Signore degli spiriti” significa che il
Signore conosce i pensieri (gli “spiriti”) delle persone; Egli non è come un
essere umano e come un re umano che, se parte del suo Paese si è
ribellata, non sa chi sia esattamente il sobillatore e dunque punisce tutti.
Il Signore conosce tutti i pensieri di tutte le persone, e sa esattamente chi
ha peccato.
Ma se D. sa chi è il vero peccatore e punisce solo lui, perché
Moshè ha bisogno di pregare affinché il Signore non punisca tutti?
Si sarebbe potuto pensare che l’ira di D. si sarebbe dovuta
scagliare contro tutti quelli che furono coinvolti nella ribellione, perché
in ogni caso erano passibili di essere puniti; la preghiera di Moshè aiutò
a far sì che il decreto punitivo si attuasse solo su coloro che peccarono fin
dalla loro radice e che schernirono dal profondo del cuore, come Qòrach,
staccandosi completamente dal bene, e non anche sul resto della
comunità che si lasciò solo trascinare dal carisma del malvagio ma che in
realtà era ancora rimasta legata al bene.
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