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HAR HABAYIT, IERI E OGGI


Nei giorni di lutto per la distruzione del Tempio, un articolo del Rabbino Capo sul Monte del Tempio




 

HAR HABAYIT, IERI E OGGI

Riccardo Di Segni


Introduzione

Har habayt significa letteralmente “il monte della casa”, è il monte dove

si trova la casa del Signore. Compare in questa forma esplicita in Yirmiyà

(Geremia, 26:18) e Mikhà (3:1) “éòø ìáîåú äáéú åäø” ed è una forma

semplificata dell’espressione “‘ä áéú äø” , “il monte della casa del

Signore”, che troviamo in Yesha’yà (Isaia, 2:2) all’inizio della famosa

profezia: “Alla fine dei tempi il monte della casa del Signore sarà ben

saldo in capo ai monti e … vi affluiranno tutti i popoli …” e alla fine (v. 4)

è detto “spezzeranno le loro spade per farne aratri e loro lance per farne

falci, un popolo non alzerà la spada contro un altro popolo e non

studieranno più la guerra”.

Secondo il Midràsh i tre patriarchi Avrahàm, Yitzchàq e Ya’aqòv

istituirono ciascuno una delle tre tefillòt fondamentali,

rispettivamente shachrìt, minchà e ‘arvit, e ognuno chiamò il luogo di

preghiera con un nome differente: Avrahàm lo chiamò har, monte (“nel

monte il Signore si mostrerà, Bereshìt. 22:14); Yitzchàq recito la tefillà sul

far della sera in un sadè, campo (“Yitzchàq uscì a conversare nel campo

sul far della sera”, Bereshìt, 24:63) e Ya’aqòv lo definì bayit, casa di D.,

(“questa altro non è che la casa di D.”, Bereshìt, 28:17).

Le differenze tra i modi con cui è chiamata la tefillà nei tre

episodi (hashkamà alzarsi di buon mattino, sichà conversazione, peghi‘à,

incontro, insistenza), i tempi, e le definizioni dei luoghi rispecchiano i

diversi modi di rivolgersi al Signore, e il senso del luogo dove si recita la

tefillà (una montagna da scalare, un luogo aperto, una casa);

l’espressione har habayit riprende la prima e ultima definizione, e omette

la seconda, quella del campo, che evoca il destino di abbandono e

distruzione di Sion (Yirmiyà, 26:18); il campo nella Torà ha infatti spesso

significati negativi: è il luogo dove Caino uccide Abele (Bereshìt, 4:8),

dove le donne vengono violentate (Devarim, 22:25); viene evocato

proprio da Yitzchàq perché dei tre patriarchi è quello che rappresenta

l’aspetto severo dell’incontro con D., il sacrificio da cui lui stesso è

sopravvissuto.

La tradizione, già dai tempi biblici, identificò il luogo dove

Shelomò costruì il Bet Ha-Miqdàsh con il luogo del mancato sacrificio di

Yitzchàq; Avraham infatti ricevette l’ordine di recarsi a fare il sacrificio

nella terra di Morià, in uno dei monti che ti dirò”; e in Divrè Ha-Yamìm

(II, 3:1) è scritto che Shelomò “cominciò a costruire la casa del Signore a

Gerusalemme sul monte Morià”.

Si parla di monte, perché è una struttura elevata separata da

valli; l’altezza attuale non è quella originaria perché quando Erode fece

i grandiosi lavori di restauro del Bet Ha-Miqdàsh decise di spianare

alcune parti; poi furono i diversi conquistatori, dai Romani in avanti, a

compiere opere di distruzione e livellamento. Attualmente arriva a 740

metri sul livello del mare.

Il nome har habayit ricorre nel Talmud e nel Midràsh 341 volte

e sta a indicare l’area delimitata che al suo interno comprendeva gli

edifici del Bet Ha-Miqdàsh e le varie aree aperte (‘azaròt, atrii o cortili).

Oppure solo la sua parte delimitata più esterna, che rispetto a

Gerusalemme che la circonda ha una qedushà superiore, ma che è

inferiore rispetto al Bet Ha-Miqdàsh vero e proprio che si trova al suo

interno.


Le dimensioni del Har Habayt

L’area dell’har habayit, secondo la Mishnà di Middòt (“Misure”, 2:1), era

di 500 cubiti per 500 cubiti, circa 250 m x 250 metri, ed era circondata da

mura molto alte. La “spianata del Tempio o delle Moschee” di oggi è

un’area trapezoidale in cui il muro occidentale (hakotel hamma‘aravi)

che oggi la delimita ad ovest è lungo 490 metri di cui la parte scoperta

destinata alla tefillà è di soli 58 metri.

Il muro occidentale non è esattamente allineato nord-sud, ma

nella parte meridionale devia di circa 10 gradi verso occidente. Il muro

orientale è lungo 470 metri. Vi sono diverse opinioni su cosa rappresenti

il kotel oggi visibile in rapporto al muro dell’har habayit.

L’idea prevalente è che nella sua parte centrale corrisponda,

dalle fondamenta, al muro occidentale, o che sia stato collocato in sua

immediata contiguità all’esterno. La lunghezza del muro occidentale di

oggi è quasi il doppio di quella indicata dalle misure rabbiniche nella

Mishnà; la differenza si spiega ipotizzando che i rabbini si riferissero

all’area sacra del primo Bet Ha-Miqdàsh, che Erode (secondo alcuni già

gli Asmonei) quando ricostruì il Bet Ha-Miqdàsh, aumentò in lunghezza.

Comunque questa differenza ha come conseguenza che la sacralità di cui

parla la Mishnà non si estende all’intera area di oggi ma esclude delle

porzioni alle estremità meridionali e settentrionali.

Ma se per la lunghezza le misure non coincidono, la larghezza

attuale dell’area (315 metri a nord e 280 a sud) però è piuttosto vicina

alla misura rabbinica. Altri dati riguardano l’altezza del muro occidentale,

che attualmente è di circa 36 metri, di cui solo 16,5 dalla superficie del

terreno; il muro è fatto di 25-26 file di pietre che risalgono al restauro

erodiano nel secondo Bet Ha-Miqdàsh, di cui 18 sotterranee; le file

superiori sono state aggiunte in epoche successive e non sono

considerate sacre; nella porzione meridionale sono visibili accanto al

muro cumuli di pietre originali dei livelli superiori scalzate dai Romani e

fatte precipitare a terra.

Il Midràsh (Shir Ha-Shirìm Rabbà, 2) riferisce al muro occidentale

le parole del Shir Ha-Shirìm ( 2:9) ëåúìðå àçø òåîã æä äðä “Ecco questo sta

dietro al nostro muro”, nel senso che la presenza divina non si

allontanerà mai da questo muro, che non verrà distrutto anche se il Bet

Ha-Miqdàsh è stato distrutto. È luogo di raccolta e tefillà. Come tale

merita particolare rispetto. Non ci si appoggia al muro se non per

la nefilàt appàim (la tefillà che si recita a capo chino) e non gli si voltano

le spalle (tranne i Kohanìm quando danno la benedizione); uscendo

dall’area, almeno per un tratto si cammina a ritroso.

Lo spessore del muro (che è circa di 4,5 metri) è considerato già

all’interno dell’area più sacra; si ritiene che il materiale per la costruzione

fu acquistato con le offerte dedicate al Bet Ha-Miqdàsh, e pertanto è

consacrato; per questo suo livello superiore di santità rispetto all’esterno

qualcuno raccomanda pertanto di non infilare le dita nelle fessure; ma

non è un’opinione diffusa. Il muro rappresenta il perimetro esterno

dell’har habayt, quindi chiunque in condizione di impurità può

avvicinarsi, a differenza dell’area che da questo è delimitata. Tutto il

piazzale antistante ha la qedushà, la sacralità di una Sinagoga, cosa che

comporta forme particolari di rispetto.


Le limitazioni all’ingresso al Har Habayt

L’ingresso all’interno dell’har habayt era consentito ai non ebrei (“il

cortile dei gentili”) e agli ebrei che si erano purificati da impurità minori

(nidòt, zavìm ecc) e a chi aveva ricevuto impurità per vicinanza ad un

cadavere e non si era ancora purificato. Dentro l’har habayt un ulteriore

perimetro interno, il sorèg, rappresentava il limite invalicabile per i

gentili. Una lapide di 60 x 90 cm scoperta nel 1871 e conservata al museo

archeologico di Istanbul porta un’iscrizione greca che proibisce oltre quel

limite l’ingresso ai gentili, con la pena di morte per i trasgressori. Quasi

a ridosso del sorèg c’era la delimitazione del chel non doveva essere

oltrepassato dagli impuri da cadavere.


Tavola 1: La struttura del Bet ha-Miqdàsh. Si notino in particolare il

perimetro esterno di 500 amòt di lato, il sorèg e il chèl.

 



Ulteriori e progressive limitazioni di ingresso scattavano nelle aree più

interne, le ‘azaròt (atrii o cortili), lo spazio tra l’altare e l’Hekhàl (il grande

edificio centrale), l’Hekhàl stesso diviso in due parti, di cui la più interna,

il Qodesh ha-Qodashìm, il Sancta Sanctorum, era permessa solo al Kohèn

Gadòl nel giorno di Kippùr. In quello spazio nel secondo Bet Ha-Miqdàsh

era esposta una roccia nuda, l’èven ha-shetiyà, “la pietra di fondamento”

sulla quale fu edificato il mondo.


Conseguenze della trasgressione di entrare nel Har Habayt

La trasgressione dei divieti di ingresso (nelle ‘azaròt) comporta la grave

pena del karèt. Tutto questo sistema viene richiamato per le sue

implicazioni pratiche da quando (1967) l’accesso alla Spianata del Bet Ha-

Miqdàsh è diventato possibile a tutti (a parte i problemi di politici e di

sicurezza). La domanda è se, dove e come sia possibile accedere secondo

le regole della tradizione religiosa. Partendo dal presupposto che siamo

tutti nella condizione di impuri per contatto o contiguità di cadavere, e

che queste categorie di impuri non potevano entrare nell’area delimitata

dal chel.

La Mishnà di Middòt fornisce le misure per ricostruire le

dimensioni degli edifici e delle aree del Bet Ha-Miqdàsh, per cui

potremmo identificare i limiti degli spazi accessibili. Ma esistono due

aspetti da risolvere, molto controversi.

Il primo è la collocazione precisa delle aree più sacre. Il

complesso del Bet Ha-Miqdàsh all’interno dell’ har habayit era, in pianta,

una struttura rettangolare orientata con il maggior asse in senso estovest.

Le porte dell’ Hekhàl si aprivano a est illuminandosi con il sole

nascente e il Qodesh ha-Qodashìm stava ad occidente, quasi a ridosso,

ma non a contatto, con il muro occidentale. Oggi nella Spianata sorgono

due edifici sacri all’Islam, la moschea di Al Aqsa nel margine meridionale

e, al centro, la Cupola della Roccia, Qubbat as-Sakhra, impropriamente

chiamata Moschea di Omar, costruita tra il 681 e 691. Sotto la cupola

dorata c’è una roccia nuda.

Rispetto alla posizione della Cupola, vi sono tre scuole di

pensiero che dividono archeologi, storici e autorità rabbiniche:

nell’opinione prevalente (che sostiene una posizione centrale del Bet Ha-

Miqdàsh rispetto all’area attuale) la roccia oggi sotto la Cupola

corrisponde alla collocazione del Qòdesh ha-Qodashìm o alla sede

dell’altare che si ergeva davanti all’Hekhàl; un’altra scuola di pensiero

sistema sposta il Bet Ha-Miqdàsh più a nord e una terza scuola più a sud.

Ognuna di queste tre scuole si dirama in tante opinioni differenti,

ciascuna con le sue prove e i suoi argomenti, con un totale di circa 20

ricostruzioni diverse. Le fonti per la discussione sono le notizie della

tradizione rabbinica, quelle di Giuseppe Flavio, le testimonianze degli

antichi viaggiatori, i responsi rabbinici classici, i reperti archeologici

sull’area, anche in considerazione delle cisterne e delle caverne che vi si

trovano.

Tra gli argomenti in discussione il ruolo della roccia sotto la

cupola, la posizione delle porte sul perimetro (molte sono state chiuse

nel corso dei secoli), la misura esatta della amà (plur. amòt) il braccio, su

cui si basano le notizie rabbiniche e che potrebbe variare, in queste

discussioni, dai 52 ai 57 cm, l’orientamento preciso nell’asse ovest-est

dell’Hekhàl.

La tavola 2 mostra una delle ricostruzioni più accreditate, almeno

in ambito rabbinico, quella di rav Yechiel Mikhal Tokchinski (1871-1955).

Se si potessero eseguire ulteriori scavi e verifiche archeologiche molti

problemi potrebbero essere superati; ma l’intera area sotterranea, per

accordi politici fatti dal 1967, è sotto il controllo dell’autorità religiosa

giordana, il Waqf, e inaccessibile a chiunque altro. Il Waqf peraltro le sue

ricerche le ha fatte, a partire dalla fine degli anni ’90, intervenendo

intensivamente nei sotterranei, come testimoniano le tonnellate di

detriti che sono state riversate negli scarichi. Gruppi di volontari

archeologici israeliani hanno in questi anni recuperato i detriti, lavandoli

e selezionandoli, collezionando così una quantità notevole di reperti di

remota antichità, e prendendo atto di un lavoro sistematico di

devastazione e cancellazione delle vestigia ebraiche (e successive preislamiche)

dell’area.

Dalle fonti rabbiniche sappiamo che il Bet Ha-Miqdàsh era

costruito sopra un sistema di volte sotterranee sovrapposte; questo in

SEGULAT ISRAEL 7

conformità agli usi edilizi dell’antichità, ma anche per creare una

struttura sospesa nella quale dal sottosuolo, forse sede di antiche

inumazioni, non si potesse trasmettere l’impurità del cadavere.


Tavola 2 Ricostruzione della posizione del Bet haMiqdàsh sulla pianta

attuale, secondo rav Yechiel Tokchinski (Torà shebèalpè, 11, pag. 157),

modificato. 1. Perimetro attuale della spianata del Tempio; 2. Aggiunte

erodiane; 3. Perimetro originario dell’Har habayt, quadrato di 500 amòt

per lato; 4. Cupola della Roccia; 5. Hekhàl; 6. Mura del Bet ha-Miqdàsh;

7. L’altare dei sacrifici con la sua rampa di accesso; 8. Cortile delle donne;

9. Chèl; 10. Perimetro attuale della spianata intorno alla Cupola della

Roccia; 11. Porta d’oro.




 

Il secondo problema è quello della permanenza della qedushà, la santità

del luogo. Secondo la tradizione rabbinica che interpreta i racconti delle

Scritture, la consacrazione degli spazi di Gerusalemme richiede il

concerto del Re, del Profeta, degli Urìm we-Tumìm (gli strumenti

oracolari del Gran Sacerdote), del Sinedrio e una serie di atti rituali. La

consacrazione della futura area del Bet Ha-Miqdàsh venne fatta da David

(il Re), su indicazione del profeta, interrogati i sacerdoti e con l’assenso

del Sinedrio.

Dopo la distruzione del primo Bet Ha-Miqdàsh i reduci dall’esilio

babilonese guidati da ‘Ezra compirono una cerimonia di consacrazione,

ma allora mancavano re e profeta. La domanda è che senso avesse la

cerimonia di ‘Ezra. Una prima risposta è che la prima consacrazione è a

tempo illimitato, per cui ‘Ezra fece solo una cerimonia simbolica di

conferma. La seconda opinione è che con la distruzione la consacrazione

originaria fu sospesa e che ‘Ezra la ripristinò con i mezzi ridotti a sua

disposizione, comunque validi. Che ne è di tutto questo dopo l’ulteriore

distruzione fatta dai Romani?

Nelle fonti rabbiniche prevale l’opinione che la qedushà originaria

dell’area non sia mai finita e tuttora è valida. La Torà dice: Renderò

desolati i vostri Santuari (Wayqrà, 26:31); il Midràsh (Mishnà Meghillà,

3:3) commenta: anche se saranno desolati sempre Santuari saranno,

rimarranno nella loro santità. Per cui rimane come in antico il divieto di

accesso agli impuri, ma sarebbe permesso, anche in assenza di Bet Ha-

Miqdàsh ed altare, fare i sacrifici prescritti in quell’area e non altrove.

Così la pensa ad esempio Rambam, il Maimonide. Altri (come il suo

contemporaneo provenzale Raavad, Avraham ben David di Posquiéres)

ritengono che la sacralità sia sospesa e non più valida, per cui la pena

del karèt, per chi oggi accede all’area interdetta, non scatta.

In conseguenza di queste discussioni si delineano diverse opinioni

sul permesso di accesso all’ har habayit: c’è chi ritiene di poter definire

i limiti di un’area comunque permessa corrispondente alla parte

meridionale del “cortile dei gentili”, subito al davanti, ma non molto oltre

la moschea di Al Aksa, alla quale però si può accedere soltanto scalzi, o

con scarpe senza cuoio, e dopo aver fatto la tevillà (bagno rituale) e aver

atteso che scenda la notte.

Il motivo per ci si richiede comunque il bagno rituale, la tevillà,

è che esistono, come sopra accennato, due condizioni di impurità da

considerare: quella da cadavere, dalla quale non possiamo liberarci (non

disponendo delle ceneri della vacca rossa) e che ci proibisce di

oltrepassare il chel, e quella che deriva da emissioni corporali, dalla quale

ci si libera con il bagno rituale. Era comunque necessario per gli ebrei, per

arrivare fino al chel, essersi purificati con la tevillà, e chi consente oggi

l’accesso a determinate aree la ritiene in ogni caso necessaria.

Inoltre, per poter accedere, bisogna essere sempre spinti da un

buon motivo, perché il rispetto dell’area sacra comporta che non ci si

possa entrare casualmente; e questo perlomeno dovrebbe essere il

comportamento delle forze dell’ordine che si devono trovare nell’area

per motivi di servizio; altri sostengono che i limiti non sono definibili e

per questo non si deve salire sull’ har habayit; e anche se il Raavad ritiene

che non scatti il karèt, la punizione è minore, ma il divieto comunque

rimane.

La posizione della Rabbanùt Rashìt di Israele ha oscillato in questi

cinquanta anni tra il divieto incondizionato (confermato dall’apposizione

di cartelli all’ingresso dell’area) e qualche parentesi più tollerante, dovuta

soprattutto all’influenza di rav Goren che fu rabbino capo d’Israele e

pubblicò notevoli scritti sull’identificazione precisa del luogo del Bet ha-

Miqdàsh e i conseguenti permessi di accesso.

In ogni caso, l’accesso limitato o interdetto non deriva certo dalla

rinuncia ai legami storici, al contrario è una riaffermazione del legame

speciale ed esclusivo con quell’area. Stanti i limiti di accesso, lo spazio per

la tefillà e il contatto con il sacro si sposta al muro occidentale, dove tutti

possono accedere, e che è luogo sacro benché di livello inferiore all’area

sovrastante, in quanto perimetro di un’area sacra centro geografico della

nostra storia.


Questo articolo si basa sulle voci dell’Entziqlopedia Talmudit raccolte nel

volume Otzar yerushalaim wehaMiqdash, Gerusalemme 2013. Il tema è stato

oggetto di una lezione il giorno di Sheminì ‘Atzeret 5777, nel limùd in ricordo

di Stefano Michael Tachè, vittima dell’attentato alla sinagoga.


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Dediche
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In memoria di Antonella bat Giuseppina z.l.
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