BENEDIZIONI DEL MATTINO, TALLÈD E TEFILLÌN: UNO STRANO USO ITALIANO
di rav Riccardo Di Segni
Nel machazòr secondo il rito delle comunità italiane, Livorno 5716-1856, nella prima parte, nelle benedizioni del mattino (pag. 4), accanto alla benedizione malbìsh ‘arumìm (“che veste gli ignudi”) compare questa nota:
מנהג ותיקים הוא להתעטף בטלית קודם ברכה זו
È uso degli antichi ammantarsi del tallèd prima di questa benedizione.
Qualche riga più in basso, al lato della benedizione ‘otèr Israel betifarà (“che corona Israele di una corona”), è scritto:
גם ראיתי מנהג זה להניח תפלין אחר ברכה זו
E ho anche visto questo uso di mettere i tefillìn dopo questa benedizione.
Le stesse note sono presenti nell’edizione precedente del machazòr italiano, Venezia 1772. Mancano invece nella prima edizione del machazòr italiano (Soncino 1486) e in quella di Bologna (1540), dove invece nelle istruzioni di halakhà (che riprendono le parole del Talmùd, come si vedrà avanti) è scritto:
Quando si veste dice malbìsh ‘arumìm, quando si mette la cinta benedice ‘ozer Israel bigvurà (“che cinge Israele con forza”) e quando si ammanta con il sudàr 2 benedice ‘otèr Israel betifarà.
La prima comparsa delle note marginali alle benedizioni è nel machazòr di rito italiano di Venezia stampato da De Gara, 1587 e ristampato altre volte. In base a questi dati possiamo identificare il periodo nel quale questo uso si è inserito tra gli usi della comunità italiana. La domanda è quale sia l’origine di questo uso che mette insieme tre regole differenti: le benedizioni del mattino, il tallèd e i tefillìn.
Le benedizioni del mattino sono prescritte nel Talmud babilonese (Berakhòt, 60b) come formule da recitare ciascuna mentre si compie un’azione distinta da quando ci si sveglia. Nello specifico,
Quando si veste dica: benedetto Colui che malbìsh ‘arumìm, quando si mette la cinta benedice ‘ozèr Israel bigvurà (“che cinge Israele con forza”) e quando si copre il capo con il sudàr benedice ‘otèr Israel betifarà.
Si noti la differenza tra due tipi di abbigliamento, ciascuno con la sua benedizione; un vestito qualsiasi all’inizio, e un panno per coprire il capo, dopo. Il Talmùd prosegue:
Quando si ammanta con [una veste che abbia] lo tzitzìt, dica: benedetto colui che ci ha santificato con i suoi precetti e comandato di ammantarsi con lo tzitzìt. Quando mette i tefillìn sul braccio dica: benedetto colui che ci ha santificato con i suoi precetti e comandato di mettere i tefillìn. Su [i tefillìn de]l capo dica: “Benedetto Colui che ci ha santificato con i suoi precetti e comandato il precetto dei tefillìn”.
Dai responsi dei Gheonìm (Chadashòt 29, confermati e ripresi dal romano Tzidqiyà Anaw in Shibbolè haLèqet, Tefillà 4) apprendiamo che ai loro tempi la benedizione ‘otèr era caduta in disuso, perché alle sue origini era strettamente collegata a un uso, quello del sudàr, seguito solo dai Rabbini sposati. Secondo il Meiri (Beth haBechirà Rosh hashanà, 8b) il sudàr era segno di libertà: gli schiavi non avevano il sudàr, perché era un distintivo delle persone libere; e veniva paragonato a una corona perché “a questo si riferisce l’espressione con le loro corone in capo”.
La benedizione ‘otèr non compare nelle Halakhòt di Alfassi, ma fu ripresa in temi successivi: R. Asher di Lunel nel Sèfer haMinhagòt (11a) spiega che la benedizione ‘otèr si estende a chi si copre il capo con un turbante (mitznèfet), come è uso in Spagna e che gli ebrei non debbano andare a capo scoperto per rispetto alla Shekhinà che immane su di loro. In Eliyahu Rabbà (46:5) qualsiasi copricapo richiede la benedizione di ‘otèr.
Gli stessi autori spiegavano il significato della benedizione ozèr (che cinge): per Ashèr di Lunel la cinta, che richiede una benedizione particolare, è collegata alla “cinta della Torà”; per Eliyahu Rabbà la cinta serve a separare la parte superiore del corpo dalle pudenda, come segno di modestia e attenzione. La regola di ‘otèr finalmente venne codificata da Rambàm (Tefillà, 7:4) per quando la persona “si mette un panno sul capo” e fu confermata dai decisori successivi per ogni tipo di copricapo. Tutte queste fonti non fanno riferimento a tallèd e tefillìn, che seguono un percorso separato. Diverse regole stabiliscono quando debbano essere indossati con le relative benedizioni e l’uso più comune è che siano indossati o subito prima della recitazione delle benedizioni del mattino o subito dopo.
Su una possibile sovrapposizione delle benedizioni con il tallèd e tefillin le fonti sono poche. Per quanto riguarda il tallèd abbiamo una testimonianza di rav Moshè Mat (Polonia, 1551-1606, in Mattè Moshè, stampato nel 1592, ‘Amùd ha’avodà, sèder hayòm utfilatò, 7):
Chi vuole ammantarsi [del tallèd] tra queste benedizioni [quelle del mattino] lo faccia prima di ‘otèr Israel, perché quella benedizione fu stabilita per l’atto di coprirsi il capo con un panno … e il nostro ammantarsi con un tallèd è come il coprirsi il capo con un panno che loro facevano. E per quanto riguarda il vestire gli tzitzìt, ho visto che ci sono persone che usano ammantarsene prima della benedizione malbìsh ‘arumìm, (”che veste gli ignudi”) e queste persone sono ignude di conoscenza, e bisogna vestirle con la veste della sapienza, perché quella benedizione non è stata istituita per questo ma per quando una persona si veste.
In sostanza rav Mat sembra l’unico che cita l’uso, ma lo fa per attaccarlo decisamente, accusando chi lo segue di ignoranza. Da altre fonti non abbiamo una citazione esplicita, forse qualche allusione, come nel commento del Gaon di Vilna a Orach Chayìm 8:
Secondo la versione dell’Alfassi la benedizione dello tzitzìt viene dopo malbìsh ‘arumìm o nelle parole di rav Chayìm Yosef David Azulai (Birkè Yosef, Orach Chayìm, 46) che citando R. Menachem Azarià da Fano (Mantova, 1548- 1620) parla della benedizione hanotèn laia’èf kòach (“che dà allo stanco la forza”):
È opportuno che questa benedizione sia detta dopo malbìsh ‘arumìm e prima di lehit’atèf betzitzìt da cui si vede che la benedizione per indossare lo tzitzìt segue malbìsh ‘arumìm. Il riferimento a rav Fano non è di poco conto, perché i suoi pareri hanno influenzato gli usi italiani, proprio nello spazio temporale tra l’edizione del machazòr di Bologna e quella di Venezia.
Se per il tallèd le fonti sono scarse, per i tefillìn c’è una tradizione più sostanziosa. Rabbenu Ya’aqòv ben Asher, l’autore dei Turìm, riferisce a proposito del padre (il Rosh) in Tur, Orach Chayìm (Tefillìn, 25) che: stava attento a indossare i tefillìn quando leggeva le benedizioni del [mattino] in ordine e le leggeva una dopo l’altra fino a ‘otèr Israel e allora indossava i tefillìn quindi benediceva ‘otèr Israel betifarà perché i tefillìn sono chiamati abbellimento (pèer) come è detto: il tuo abbellimento (pearkhà) è cinto su di te (Ez., 24:17), e sono chiamati tefillìn da pelilà (giudizio) perché sono un segno e una testimonianza per tutti coloro che ci vedono che la Shekhinà si posa su di noi come è scritto: “e vedranno tutti i popoli che il nome di D. è invocato su di te” (Devarìm, 28:10) che si riferisce ai tefillìn del capo.
Altri testi che riportano questa informazione specificano che il Rosh indossava i tefillin tra ozèr e ‘otèr (Agùr, Tefillìn 35, Mattè Moshè, ibid.), e così è riferito nello Shulchàn ‘Arùkh (Orach Chayìm 25:3).
A dispetto della fonte autorevole, i decisori notano:
Non ho visto chi usi fare così, ma i tefillìn si mettono o prima o dopo le benedizioni, e chi sta attento li tocca soltanto nel momento in cui dice questa benedizione (Mishnà Berurà, ibid. nota 13, a nome di Artzòt haChayìm del Malbim). Non è la regola…, ma chi ha la possibilità secondo il suo corpo e la sua abitudine di fare così lo faccia pure, ma non è la regola (‘Arùkh hashulchàn, Orach Chayìm 25:6).
Va notato in ogni caso che la regola del machazòr è di mettere i tefillìn dopo la benedizione, mentre il Rosh li metteva prima.
In fonti molto più recenti si collega simbolicamente la benedizione ozèr ai tefillìn del braccio (per le cinghie che si arrotolano e per la forza che se ne ricava per combattere e dominare l’istinto):
Un’allusione a questo l’espressione: saranno un segno, leòt, sul tuo braccio (Shemòt, 13:9), dove ותא ot, è fatto dalle iniziali delle parole dello shemà: אחרי תתורו ולא welò tattùru acharè, non devierete appresso i vostri cuori (Bemdibàr, 15:39). (Avraham Avish Reinhald, Chidushè Avrach, Parasha wayetzè, Antwerpen 1923, e Derekh Chuqècha, mitzwà 42, di un allievo di rav Itzchàq Safrin, Hekhàl berakhà)
In conclusione, in base alle fonti fin qui citate, e in assenza per ora di altre indicazioni, siamo davanti a un uso che viene fatto passare per antico (minhàg watiqìn) ma che compare solo nella seconda metà del XVI secolo, che ha reinterpretato il senso delle benedizioni del mattino, attribuendo alle antiche espressioni un senso più diretto e riferito a tallèd e tefillìn. Sembra un uso limitato a pochi, contestato per quanto riguarda il tallèd e tollerato per quanto riguarda i tefillìn, ma non per questo privo di fascino e di grandi valenze simboliche.
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