Sulla proibizione di fare pratiche magiche
di Marco Ottolenghi
La Torà vieta in diversi passi ogni forma di magia e divinazione. Nella parashà di Qedoshìm (Wayiqrà, 19:26) è scritto "Non mangerete (un animale) mentre (contiene ancora) il sangue. Non agirete in base a dei presagi, né in base a considerazioni astrologiche” e nella parashà di Mishpatìm (Shemòt, 22:17) è scritto “Non permetterai che chi pratica stregoneria continui a vivere”.
Nella parashà di Shoftìm (Devarìm, 18:9-13) vi sono cinque versi nei quali Moshè Rabbenu insegna in modo dettagliato le diverse forme di pratiche magiche che sono fondamentali per capire l'importanza di questo divieto.
Quando sarai giunto alla terra che Il Signore tuo D. sta per darti, non imparerai a fare come gli abomini di quei popoli. Non si troverà in mezzo a te chi passa suo figlio e sua figlia nel fuoco, né chi fa sortilegi, o chi fa l'indovino, il mago o lo stregone. L'incantatore, l'interrogatore di Ov (medium) e Idde’onì (oracoli), o il negromante. Perché è considerato un abominio dal Signore chiunque faccia queste cose, e per questi abomini il Signore tuo D. li scaccia da dinnanzi a te. Sarai integro (Tamìm) con il Signore tuo D.
Dall'analisi dei versetti, notiamo innanzi tutto che per ben tre volte viene ripetuta la parola abominio riferita alle diverse pratiche magiche ma viene anche specificato che a causa di questo modo di operare le popolazioni della terra di Canaan verranno scacciate dalla terra di Israele. Il Rambam, nelle Hilkhòt ‘Avodà Zarà (11:8) spiega in modo dettagliato le modalità delle diverse pratiche magiche. A proposito del divieto di divinazione (le’onen) che compare sia nella parashà di Qedoshìm sia in quella di Shoftìm dice: Chi è da considerarsi divinatore (Me’onèn)? Sono coloro che in base all'astrologia proclamano che un tale giorno è favorevole e tal altro è sfavorevole. Proclamano che un certo giorno è propizio al compimento di un'azione oppure che un anno o un mese particolare siano poco propizi per compiere un'azione.
Quale è il motivo per cui la Torà sottolinea la gravità di queste pratiche magiche alla pari dei divieti d' incesto e dell'idolatria? Una prima risposta possiamo trovarla nella descrizione che il Rambam fa dell'origine del fenomeno dell'idolatria. Egli scrive che agli albori dell'umanità vi era una chiara consapevolezza dell'esistenza del D. Unico. Solamente in una fase successiva la maggior parte degli uomini dimenticò l’Eterno e cadde nella pratica del politeismo e dell'idolatria. La causa di questa degenerazione è collegata proprio agli astri e alle stelle come spiega appunto il Rambam nelle Hilkhòt Avodà Zarà (1:1-2).
Durante i tempi di Enosh, l'umanità compì un gravissimo errore, e i saggi di quella generazione non mancarono di dare consigli sconsiderati. Enosh stesso era tra coloro che sbagliarono. Il loro errore fu il seguente: Essi dissero: il Signore ha creato le stelle e le sfere con le quali controlla il mondo. Le ha poste su in alto e le ha trattate con onore facendole sue servitrici. [Essi supposero] che fosse la volontà del Signore, che glorificassero e onorassero ciò che Lui glorificò e onorò. [….] Usavano dire loro lodi e glorificarle con parole, e prostrarsi innanzi a loro. [….] Questa era l'essenza dell'idolatria”.
[….] Queste pratiche si diffusero in tutto il mondo. Le persone presero a adorare le immagini con pratiche l'una più distorta dell'altra e, con il passare degli anni, il nome del Signore Glorioso e Temibile fu dimenticato da tutte le genti. [….] La Rocca Eterna [il Signore] non era riconosciuto o conosciuto da nessuno nel mondo con l'eccezione di pochi individui. [….] Il mondo continuò a procedere in questo modo fintanto che il pilastro del mondo, il patriarca Abramo venne alla luce.
Il Rambam insegna quindi che Avraham non fu il primo monoteista della storia ma piuttosto il primo uomo che, nascendo in una società idolatrica, arrivò a riconoscere che vi è un unico Creatore nel mondo.
Vi sono diversi Midrashìm che narrano del percorso di Avraham alla ricerca del Creatore e delle sue riflessioni a proposito degli astri e delle stelle con le quali arrivò alla conclusione che in nessun modo possono essere considerati delle divinità.
Quando l’Eterno disse ad Avraham di allontanarsi da Charan in Mesopotamia e di andare “alla terra che ti mostrerò” (Bereshìt, 12:1), Avraham aveva quindi già rifiutato totalmente l'idea che gli astri potessero essere considerati delle divinità. Nel Talmud babilonese (Shabbàt, 156a) i Maestri insegnano che arrivato nella Terra di Canaan, Avraham compì un ulteriore passo nei confronti della sua concezione delle sfere celesti. Lì troviamo le parole di Rav a proposito del versetto della Torà (Bereshìt, 15:5) dove è scritto: E [l’Eterno] lo fece uscire fuori [Avraham] e gli disse: guarda verso il cielo e conta le stelle, se le riesci a contare, e gli disse, così sarà la tua discendenza.
E anche Rav sostiene che non c'è mazàl [destino prestabilito] per Israele, poiché dice rav Yehudà a nome di Rav: Da dove sappiamo che non c'è mazàl per Israele? Perché è detto “E lo fece uscire fuori …” Avraham disse di fronte al Santo Benedetto Egli Sia: Padrone del mondo un servo della mia casa mi erediterà. [Il Signore] gli disse: non sarà così, ma uno che uscirà dal tuo ventre. Avraham gli disse: Padrone del mondo, ho visto che secondo l’astrologia non è previsto che mi nasca un figlio. Il [Signore] gli disse: Esci fuori dalla tua concezione astrologica del futuro, poiché non c'è mazàl per Israele.
Nel passo citato del Talmud, riportato anche da Rashì nel suo commento a Bereshìt, il significato delle parole “E lo fece uscire fuori” riguarda la concezione errata che Avraham aveva fino ad allora che l'astrologia potesse essere rilevante. Dopo aver rifiutato l'idea che gli astri fossero delle divinità, Avraham acquistò la consapevolezza che grazie alla benedizione dell’Eterno gli astri non avevano alcuna influenza sulla sua vita.
Più avanti nella parashà di Lekh Lekhà, contestualmente alla mitzwà di fare la milà (di circoncidersi), Avraham ricevette l'ordine di procedere davanti a D. e di essere Tamìm (integro). Il termine Tamìm viene spiegato in loco da Rashì in connessione alla mitzwà della milà (circoncisione). È interessante notare che nella parashà di Shoftìm la parola Tamìm compare subito dopo il divieto delle varie forme di magia e lì Rashì spiega: “Cammina con il Signore con temimùt (integrità) confida il Lui e non indagare sulle cose future ma tutto quello che ti accadrà accettalo con temimùt”.
In questo passo quindi, Rashì attribuisce al termine Tamìm un significato che si allinea con quanto riportato nella Ghemarà sopracitata da Rav e cioè un atteggiamento di fiducia nell’Eterno e nei confronti di quello che accadrà e un rifiuto di voler indagare il futuro.
TUTTO DIPENDE DAL CIELO, TRANNE IL TIMORE DEL CIELO
Questo detto che compare in tre occasioni nel Talmud a nome di R. Chaninà, è citato dal Rambam nell’ottavo capitolo della sua introduzione alla Mishnà di Avòt. Il Rambam insegna che questo principio è una delle fonti sulle quali si basa la concezione che l’uomo è dotato di libero arbitrio e che ha la facoltà di scegliere tra il bene ed il male, senza che nessun’altra forza, nemmeno il Creatore, influisca sulla sua scelta.
Dalla parole di R. Chaninà però si deduce soprattutto che tutto il creato dipende solamente dalla Volontà Divina, come ribadisce lo stesso Rambam nella prima halakhà del Mishnè Torà e che non vi può essere nessuna altra forza o volontà all’infuori del Creatore che influisca sulla natura dell’universo da Lui creato.
Una concezione del mondo che lascia spazio al fenomeno della magia ritiene invece che maghi e indovini possano con i loro sortilegi e arti magiche influire e cambiare il corso naturale degli eventi, anche in contrapposizione alla Volontà Divina.
Per la mitologia pagana, la magia aveva la facoltà di poter cambiare non solo la volontà dell’uomo ma anche la natura e la volontà degli dei. Credere nella magia, equivale a sostenere che nell’universo esistano altre entità che abbiano una volontà indipendente in alternativa o in sostituzione al Creatore. Tutto ciò significa negare l’Onnipotenza e l’Unicità del Creatore e proprio per questo motivo la Torà equipara la magia all’idolatria.
TUTTO È PREVISTO (DA D.) E (ALL’UOMO) È DATO IL LIBERO ARBITRIO
Questa mishnà, che riporta le parole di R. Aqivà, ci pone di fronte al noto problema filosofico del contrasto fra l’Onniscienza Divina e il libero arbitrio che è affrontato dal Rambam in diversi suoi scritti tra i quali l’ottavo capitolo della sua introduzione al trattato di Avòt e nel Mishnè Torà (Hilkhòt Teshuvà, cap. 5).
La discussione della difficoltà filosofica di questa mishnà esula dall’argomento di questo saggio. Ciò che è importante sottolineare che il Rambam insegna che questo detto di R. Aqivà è uno dei pilastri sui quali si fonda la concezione che l’uomo è totalmente libero di scegliere se fare il bene o il male.
Il Rambam insegna anche che la facoltà del libero arbitrio fa parte della natura dell’uomo dal momento stesso della sua creazione. Proprio questa prerogativa è ciò che fa dell’uomo un essere creato ad immagine divina come spiega nella Guida dei Perplessi (I, cap. 2):
Infatti l’intelletto, che è ciò che D. ha emanato sull’uomo, ed è la perfezione ultima di questi, era stato ottenuto da Adamo prima della sua trasgressione; è a causa sua che si dice di lui che è a immagine di D. e a sua somiglianza, ed è a causa sua che D. si rivolge a lui e gli dà ordini, come dice la Torà: E il Signore D. ordinò ecc […].Infatti non si danno ordini alle bestie, e neppure a chi non ha intelletto […].
In altre parole se D. pone un divieto all’uomo, ciò comporta necessariamente che l’uomo sia in grado di intendere e volere e sia in grado di fare una scelta libera.
Alla luce della spiegazione del Rambam, possiamo apprezzare anche il collegamento che esiste tra le parole di R. Aqivà nella mishnà 15 (“… ma all’uomo è dato il libero arbitrio …”) con le sue parole nella mishnà che la precede: “Caro [a D.] è l’uomo che è stato creato a Sua somiglianza. Ma una speciale predilezione egli ebbe poiché gli fu reso noto il fatto di essere stato creato ad immagine divina…” (Avòt, 3:14).
La consapevolezza di essere stato creato ad immagine divina è ciò che fa dell’uomo un essere libero che non è costretto da nessuno a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Nelle Hilkhòt Teshuvà (5:1-3) il Rambam spiega:
Il libero arbitrio è dato ad ogni uomo. Se vuole andare sulla buona strada ed essere giusto, la possibilità è nelle sue mani. Se vuole dirigersi sulla strada del male, ed essere malvagio, la possibilità è nelle sue mani [….] e non c’è chi lo trattiene dal fare il bene o il male.
Non si pensi nei propri pensieri come dicono gli sciocchi delle nazioni del mondo e molti del popolo d’Israele, che il Santo Benedetto Egli Sia, decreta che un uomo sia fin dalla nascita giusto o malvagio. Non è vero, e piuttosto, ogni uomo è adatto ad essere giusto come Moshè Rabbenu o malvagio come Geroboamo [….] Non vi è nessuno che lo obbliga, stende decreti su di lui, o lo indirizza verso una o l’altra di queste strade. Piuttosto, lui, di sua iniziativa e decisione, va verso la strada che lui sceglie.
Questo è un grande principio e un pilastro della Torà e delle mitzwòt, come è detto:“Vedi, oggi ho posto davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Devarìm, 30:15) [….] E ognuno degli atti degli uomini che una persona vuole fare, può farlo, sia esso bene o male.
Pertanto, una visione del mondo che si basa sulla magia o sulla predestinazione, non è solo in contrasto con il principio dell’Onnipotenza e dell’Unità Divina ma, imprigionando l’umanità in una concezione deterministica della vita tende a negare la caratteristica specifica dell’uomo creato ad immagine divina che si esprime con la libertà di poter scegliere in ogni momento come agire.
SCOPO DELLA PROFEZIA NON È QUELLO DI PREDIRE IL FUTURO
La facoltà concessa all’uomo di fare Teshuvà in ogni momento della sua vita è alla base della concezione ebraica che l’uomo non può conoscere il proprio futuro. Dalle parole del Rambam nelle Hilkhòt Teshuvà, risulta evidente che ogni uomo, di sua iniziativa e decisione, va verso la strada che lui sceglie e non vi è nessuno che lo obblighi.
Pertanto l’uomo non può conoscere il futuro, proprio perché esso dipende dalle sue decisioni e non avendole ancora prese ontologicamente il suo futuro non esiste.
Neanche i neviìm (profeti) hanno la facoltà di predire in assoluto il futuro. Questa affermazione, a prima vista, sembrerebbe essere in contraddizione con quanto troviamo scritto nella Torà (Devarìm,18:21- 22:
Se dirai in cuor tuo come potremmo riconoscere che una certa affermazione [di un navì] non l’ha detta il Signore? Se quello che il navì dirà a nome del Signore non accadrà e non si realizzerà ciò significa che il Signore non l’ha detto. Il navì l’ha detta per ingannarti, non dovrai temerlo.
Anche il Rambam scrive nelle Hilkhòt Yesodè Ha-Torà (10:3-4)
Che una dell caratteristiche del navì è quella di saper predire il futuro.
Subito dopo però, afferma che la facoltà dei neviìm di predire il futuro
è limitata alle profezie che prevedono degli avvenimenti benevoli.
Le profezie di disgrazie che un navì esprime, per esempio: il tal dei tali morirà, oppure quest’anno, o quest’altro anno ci sarà una carestia o una guerra. Se queste parole non si avverano, questo non annulla la validità della sua profezia, né diciamo: “Ecco ha detto queste cose e non si sono verificate”. [Questo perché] Il Santo Benedetto Egli sia, non si affretta a punire, abbonda in bontà e perdona il peccato. Quindi è possibile che essi si pentano e che il loro peccato sia perdonato, come nel caso delle genti di Ninive e nel caso di Chizqiyàhu. Ma se un navì ha promesso che il bene verrà, e che questo o quello succederà, e il bene che ha profetizzato non accade, di sicuro è un falso profeta, perché il bene che il Signore promette, anche se il decreto è condizionato non sarà mai annullato.
Il motivo per cui una profezia di disgrazia non sia destinata sempre ad avverarsi risiede proprio nella forza della Teshuvà che, come dice il Rambam, ogni uomo è libero di praticare e in tal modo definire il suo futuro. Sia il Rashbam nel suo commento ai versi di Devarìm sopracitati, sia il Rambam nelle halakhòt appena citate, riportano i casi della città di Ninive e del re Chizqiyàhu nei quali le profezie di disgrazia non si avverarono. Con tutto ciò nessuno mai dubitò che Yonà e Yesha’yà furono dei veri profeti. Nel nono capitolo (hal. 2) delle Hilkhòt Yesodè Ha- Torà, il Rambam in definitiva spiega quale sia il vero compito del profeta:
Perciò, perché è scritto nella Torà “Per loro farò sorgere in mezzo ai loro fratelli un
navì come te e gli porrò in bocca le mie parole; lui riferirà loro tutto ciò che gli
ordinerò” (Devarìm, 18:18). Il navì non viene mandato per riformare la legge ma
per comandare le parole della Torà e per ammonire di non contravvenire ad essa,
come ha detto l’ultimo dei profeti: “Ricordatevi della Torà di Moshè mio servo”
(Malakhì, 3:22).
Vediamo perciò che l’annuncio di eventi futuri avviene sempre in un contesto specifico e come ausilio al profeta nelle sue parole di ammonimento al popolo. La predizione del futuro è soprattutto un mezzo per convincere il popolo a fare Teshuvà. Il vero compito del navì è di ricordare al popolo di non trasgredire la Torà e di osservarla. Il navì quindi non viene a soddisfare una curiosità o un desiderio di conoscere il futuro, ma ha un compito ben diverso e più significativo dei presunti maghi ed indovini.
Precedentemente abbiamo visto che una delle spiegazioni della parola Tamìm si riferisce ad avere un atteggiamento di fiducia nei confronti del futuro che l’Eterno riserverà per noi e a non voler cercare di conoscerlo attraverso qualsiasi mezzo.
QUESTO MESE È PER VOI IL CAPO DEI MESI. È IL PRIMO PER VOI DEI MESI DELL’ANNO
Nelle civiltà dell’antico Egitto e della Terra di Canaan la pratica dell’idolatria era strettamente connessa all’osservazione dei movimenti degli astri. Una volta che stelle e costellazioni ebbero ricevuto il nome di un dio mitologico, le proprietà e le caratteristiche di quel dio si trasmisero all’astro. Da qui nacque la credenza che a seconda del movimento di un certo astro si dovesse verificare un’influenza precisa e deterministica sugli eventi terreni.
Se consideriamo che dall’origine dell’umanità il movimento apparente del sole e i cicli della luna hanno sempre avuto la funzione di misurazione del trascorrere del tempo, possiamo capire l’importanza che viene attribuita, nelle pratiche di divinazione, a momenti particolari della vita umana quali la nascita, incontri con altre persone o anche la morte, imprigionando ogni evento nell’inesorabilità di una data specifica.
La prima mitzwà data al popolo ebraico riguarda la determinazione del tempo e della fissazione di un nuovo calendario: Questo mese è per voi il capo dei mesi, è il primo per voi dei mesi dell’anno (Shemòt, 12:2). Rashì, in loco, dice: “L’Eterno fece vedere a Moshé l’inizio del mese lunare, quando la luna si rinnoverà sarà il capo mese […] si sta parlando del mese di Nissàn che da ora diventerà il primo nel computo annuale dei mesi”.
R. ‘Ovadià Sforno sottolinea l’importanza di stabilire un nuovo calendario come elemento essenziale del percorso del popolo ebraico dalla schiavitù a una dimensione di libertà: “Da questo momento in poi i mesi saranno vostri per fare quello che più vi pare. Quando eravate schiavi i vostri giorni non erano vostri. Perciò questo mese è per voi il primo dei mesi nel quale inizia la vostra realtà di uomini liberi capaci di scegliere come agire”.
La caratteristica della prima mitzwà data al popolo ebraico, però, va al di là del concetto di libertà dell’uomo di disporre del proprio tempo. In questo precetto il valore della libertà umana si esprime soprattutto attraverso un rifiuto di accettare la determinazione del tempo solamente in base al movimento apparente del sole e al movimento della luna e di conseguenza in un rifiuto di accettare la dottrina pagana dell’influenza astrale sugli eventi umani.
L’essenza della prima mitzwà è proprio quella di richiedere all’uomo un intervento attivo nella determinazione del tempo e del nuovo calendario come spiega il Rambam nella prima halakhà delle Hilkhòt qiddùsh ha-hòdesh: “I mesi dell’anno vanno calcolati secondo la luna […] ma gli anni li contiamo secondo l’anno solare poiché è scritto Osserverai il mese della primavera [e farai Pèsach, n.d.a.]. Questo comandamento fa sì che il ciclo dei mesi lunari debba essere regolato in parallelo con le stagioni dell’anno solare e in modo che la festa di Pèsach cada sempre in primavera. Il capo mese e la fissazione temporale di tutte le festività prescritte dalla Torà dipendono quindi dall’intervento attivo dei Maestri che, per conciliare l’anno lunare con l’anno solare, hanno stabilito gli anni embolismici. In origine i Maestri stabilivano anche, volta per volta la durata di ciascun mese, il che naturalmente determinava la data esatta di ogni festa.
È nota nel trattato Rosh Hashanà (25a) la disputa tra rabbì Yehoshua’ e rabban Gamliel a proposito del giorno stabilito per celebrare Yom Kippur. Rabban Gamliel, per salvaguardare l’autorità del Bet Din di stabilire le date delle feste, impose a rabbì Yehoshua’ di presentarsi davanti a lui col suo bastone e con i suoi soldi, nel giorno che, secondo i calcoli di rabbì Yehoshua’, sarebbe stato Yom Kippur.
Da questo episodio riportato dalla Ghemarà, possiamo imparare un messaggio fondamentale della Torà. Il movimento apparente del sole e i cicli della luna, pur essendo un punto di riferimento essenziale per la misurazione del tempo, non sono sufficienti per la determinazione e la fissazione dei Mo’adim (le ricorrenze) prescritti dalla Torà. Essi richiedono, come abbiamo visto un intervento del Bet Din che in base ai precetti della Torà, stabilisce la data esatta di ogni festa. Questo equivale a dire che la Torà non solo non accetta una visione deterministica sulla vita dell’uomo ma anche le ricorrenze stesse non seguono una cadenza determinata a priori dal movimento naturale degli astri.
L’unica ricorrenza ebraica sulla quale l’uomo non ha alcuna possibilità di intervenire o di modificare è lo Shabbàt. Lo Shabbàt scandisce un tempo assoluto decretato dal Creatore fin dalla creazione del mondo e dipende solamente dalla Sua parola. Per quanto riguarda invece la fissazione del calendario ebraico, il Creatore attraverso la prima mitzwà, ha dato la facoltà e il dovere ai Maestri del popolo ebraico di superare la dipendenza dal movimento deterministico del cosmo che da sempre è stato alla base della dottrina pagana dell’influenza astrale sugli eventi terreni.
Il Rambam ribadisce ancora una volta questo concetto in una delle sue ultime opere (“La lettera sull’astrologia”) scritta in risposta a dei rabbini francesi nell’anno 1195.
Dovete sapere, Signori, che tutti questi argomenti della determinazione astrale e le pretese di coloro che ritengono che si possa stabilire anticipatamente se un certo fatto si verificherà o no, oppure la durata della vita di un uomo o il suo destino, sono privi di ogni fondamento di verità e non sono che insulsaggini.