Sull'origine del minhàg del Shalòm Zakhàr
di Daniel Gladstein
Presso gli ashkenaziti esiste il minhàg (usanza) di fare una cena la sera dello Shabbàt (cioè di venerdì sera) che segue la nascita di un figlio maschio e che precede il Berìt Milà. Questa cena è chiamata Shalom Zakhàr. Shalom significa pace e Zakhàr, maschio. Vi sono varie spiegazioni su perché il Shalom Zakhàr è chiamato così. C’è chi sostiene che si viene a salutare (Shalom) il neonato maschio; altri dicono che il minhàg deriva dal Talmùd babilonese nel trattato Niddà (31b) dove è detto che un figlio maschio porta pace.
R. Yosef Caro (Spagna 1488-1575 Safed) nello Shulchàn ‘Arùkh (Y.D., 265:12) scrive:
Si usa fare un pranzo festivo nel giorno della Milà...
Il Remà (Cracow 1530 -1572) nelle sue glosse aggiunge:
... inoltre si usa fare una cena festiva la sera dello Shabbàt dopo la nascita di un figlio maschio e (amici e conoscenti) vengono (nella casa) dove c’è il bebè a fare uno spuntino (lit’om). Anche questa è una se’udàt mitzwà.
Questa halakhà del Remà è tratta da un responso di R. Israel Isserlein (1390-1460 Neustadt) nella sua opera Terumàt ha-Dèshen (n.269). Il responso tratta l’argomento del riscatto dei primogeniti (Pidyòn ha-Ben); l’argomento del Shalom Zakhàr è secondario e occupa poche righe.
La domanda rivolta a R. Isserlein era la seguente: se il trentunesimo giorno dalla nascita del bambino (quando si deve fare il Pidyòn) cade di Shabbàt, bisogna aspettare fino a domenica per fare il pidyòn oppure c’è modo di farlo anche di Shabbàt.
R. Isserlein rispose che per osservare la mitzwà del Pidyòn il padre del bambino deve dare al Kohèn delle monete d’argento, o oggetti di simile valore intrinseco, il cui peso è equivalente a cinque sheqalim della Torà. Assomiglia quindi a un atto di compravendita che di Shabbàt è proibito per decisione rabbinica e pertanto il Pidyòn non può essere fatto di Shabbàt.
Nel corso del responso R. Isserlein menziona che quando si fa il Pidyòn si usa preparare un pranzo festivo per pubblicizzare la mitzwà. E aggiunge che la fonte è nel Talmùd Bavà Qamà (80a) dove è scritto:
Rav, Shemuel e rav Assi arrivarono in una residenza dove aveva luogo la Shevùa ha-Ben (la settimana del figlio) e c’è chi dice (dove aveva luogo la) Yeshua’ ha-Ben (la salvezza del figlio).
Rashì (Troyes 1040-1105) spiega che l’espressione Shevùa ha-Ben si riferisce al Berìt Milà che viene fatto nell’ottavo giorno dopo sette giorni dalla nascita; l’espressione Yeshua’ ha-Ben si riferisce al pranzo festivo che veniva offerto per il Pidyòn ha-Ben.
La stessa spiegazione sul significato del termine Yeshua’ ha-Ben viene fornita da R. Natan (Roma 1035-1106) nel suo ‘Arùkh. Questa spiegazione non è ritenuta corretta dai tosafisti (T.B., Bavà Qamà, 80a, Le-Bè Yeshua’ ha-Ben) perché la parola Pidyòn (riscatto), che in aramaico è tradotta con il termine Purqàn, non è appropriata alla parola Yeshua’. Pertanto R. Tam (Ramerupt 1100-1171) spiega che la parola Yeshua’ viene usata in occasione della nascita di un bambino che è uscito sano e salvo dal grembo della madre. E in quell’occasione si prepara un pasto festivo.
Dopo aver citato le opinioni di Rashì, di R. Yechièl e di R. Tam, R. Isserlein aggiunge che qualunque sia la spiegazione della parola Yeshua’, tutti sono d’accordo che il pasto festivo, menzionato nel succitato passo del Talmùd Bavà Qamà, era considerata una Se’udàt Mitzwà. La cosa era dimostrata dalla presenza di Rav di cui era nota l’usanza di non partecipare a pranzi o cene che non fossero per una mitzwà (Cholìn, 95b). R. Isserlein afferma:
... la nostra usanza di andare in visita dopo la nascita di un figlio maschio a mangiare qualcosa la sera di Shabbàt che segue il parto, è (per partecipare al)la Se’udat Mitzwà menzionata da R. Tam. Questo pasto festivo viene offerto la sera di Shabbàt quando tutti sono a casa.
Questa spiegazione non è accettata da R. Yair Bachrach (1638-1701 Worms) in un responso (n. 70) nella sua opera Chawòt Yaìr. Colui che aveva posto la domanda aveva chiesto qual era la definizione di Se’udàt Mitzwà; anche in questo caso l’argomento del Shalom Zakhàr è secondario.
R. Bachrach risponde anticipando che è assai difficile dare una definizione precisa di cosa sia una Se’udàt Mitzwà. Cita un responso precedente di R. Shelomò Luria (1510-1573 Lublino) nel suo Yam Shel Shelomò (Bavà Qamà, cap. 7:37) dove l’autore riferendosi al citato passo della Ghemarà in Bavà Qamà (80a) afferma che ogni pasto che viene offerto per ringraziare l’Eterno o per pubblicizzare un miracolo e non per mangiare con gli amici (Se’udàt Mere’ìm) o per gioire insieme (Simchà), è considerato Se’udàt Mitzwà. Questo perché anche secondo R. Tam la cena viene fatta per pubblicizzare il miracolo che il bebè e la puerpera hanno superato indenni il parto.
Riguardo al Pidyòn ha-Ben, R. Luria afferma che il pranzo che si prepara è una Se’udàt Mitzwà perché...
... ogni pasto che non si prepara per mangiare con gli amici (Se’udàt Mere’ìm) o per gioire insieme (Simchà) ma per ringraziare l’Eterno, per pubblicizzare la mitzwà, o per pubblicizzare un miracolo è una Se’udàt Mitzwà come per esempio il pranzo del Pidyòn ha-Ben che viene preparato per pubblicizzare la Mitzwà o, secondo l’opinione di R. Tam, (se la Ghemarà non si riferiva a un Pidyòn ha-Ben) per pubblicizzare il miracolo che il bambino e la puerpera hanno superato indenni il parto.
Per lo stesso motivo R. Luria aggiunge che anche i pasti festivi che vengono preparati in occasione di una milà, per un matrimonio, in occasione di Chanukkà o per il completamento dello studio di un trattato talmudico sono considerati Se’udàt Mitzwà. E così pure i pranzi per l’inaugurazione di una casa e per il bar mitzwà quando vengono tenute delle derashòt su argomenti di Torà.
In deferenza a R. Luria, R. Bachrach scrive:
Certamente le parole di R. S. Luria sulla Shevùa ha-Ben o Yeshua’ ha-Ben sono corrette, accettabili e ragionevoli perché queste se’udòt vengono preparate per la mitzwà e possono essere chiamate Se’udàt Mitzwà, anche se la dimostrazione di R. Luria non è certa perché è possibile che Rav fosse andato li... senza però toccare cibo.
E riguardo al Shalom Zakhàr aggiunge:
Lungi da me essere in disaccordo con lui, ... in ogni modo si può dire che questa non rientra nella definizione di Se’udàt Mitzwà... dal momento che non si tratta di una cena formale poiché la gente va e viene solo per bere qualcosa e ci sono persone che non mangiano nulla; e inoltre non vengono estesi inviti.
R. Yechezkèl Landau (Apta 1713-1793 Praga) nella sua opera Dagùl Merevavà (Y.D., 178) riporta quanto detto da R. Tam che l’espressione Yeshua’ ha-Ben descrive la nascita indenne di un bebè e aggiunge che la cena festiva per celebrare l’evento veniva fatta la sera che precedeva il Berìt Milà e non la sera di Shabbàt. Egli dissente quindi con l’opinione di R. Isserlein in Terumàt ha-Dèshen citata dal Remà e spiega che se la cena avesse luogo per celebrare il fatto che il bebè è uscito salvo dal grembo della madre “si dovrebbe fare una cena festiva anche in occasione della nascita di una femmina”.
A riprova della sua opinione R. Landau cita la Ghemarà Sanhedrin (32b) dove è detto: se ci sono lumi a Berur Chail è un segno che c’è un cena festiva”. Infatti durante le persecuzioni dei romani che proibivano di fare il Berìt Milà, non venivano fatti annunci pubblici e l’accensione di lumi era il modo per informare che la sera prima di un Berìt Milà ci sarebbe stata una cena festiva.
In conclusione, i posqim sono in disaccordo se il Shalom Zakhàr sia o non sia una Se’udàt Mitzwà e se l’espressione Yeshua’ ha-Ben citata nella Ghemarà Bavà Qamà si riferisca al ricevimento che si offre il venerdì sera dopo la nascita di un maschio o al Pidyòn haBen. Qualunque ne sia l’origine e il motivo, l’usanza del Shalom Zakhàr è ormai universalmente diffusa e accettata dagli ahkenaziti come afferma l’autore dei responsi Terumàt ha-Dèshen.