Un'accusa calunniosa
UN RESPONSO HALAKHICO SU UN’ACCUSA CALUNNIOSA
Donato Grosser
Nella sua opera Séfer Chafétz Chayìm, R. Israel Meir Kagan trattò in modo completo tutto gli argomenti della maldicenza, derivanti da un versetto della Torà dove è scritto : “Non andare a raccontare degli altri tra la tua gente” (Wayqrà, 19:16). R. Kagan definì prima di tutto i termini delle tre proibizioni di diffondere dicerie, di fare malalingua e di calunniare il prossimo.
Egli scrive: “Qual è definizione di chi va in giro diffondendo dicerie, holèkh rakhìl? Holèkh rakhìl è colui che sente delle notizie [su qualcuno] e va da una persona all’altra a dire: «Il tale ha detto così di te, ho sentito che il tale ti ha fatto così». Anche se queste affermazioni sono vere, questo comportamento distrugge la società (lett. “il mondo”).
Un peccato molto più grave che rientra in questa definizione è la maldicenza, lashòn harà’, che si commette quando si sparla del prossimo anche se si dice la verità.
Ancora peggio, chi racconta cose false sul prossimo compie il reato di calunnia, motzì shem ra’.
Nella prefazione al Séfer Chafétz Chayìm, R. Kagan scrive:
[...] ho raccolto tutte le halakhòt riguardanti lashòn harà’ e rekhilùt in un libro, attingendole da tutti i passaggi che si trovano nel Talmud e nelle opere dei decisori halakhici, principalmente dal Maimonide, dal Sèfer Mitzvòt Gadòl e dal Sha’arè Teshuvà di rabbènu Yonà di benedetta memoria, che ci hanno chiarito il significato di questa mitzwà. Ho anche raccolto halakhòt da un responso [n. 188] di rav Yosèf Colon e da altri responsi su questo argomento.
R. Yosef Colon (acronimo Maharìk) figlio di Salomone Trabotto nacque attorno all’anno 1420 nella Savoia, fu rav a Savigliano, a Mantova, a Venezia e a Pavia nella seconda metà del 1400; i suoi responsi divennero la base di molte halakhòt nello Shulchàn ’Arùkh. Il responso succitato, che servì come una delle fonti per il Séfer Chafétz Chayìm, tratta di un fatto che ebbe luogo nella comunità ebraica di Padova presumibilmente tra gli anni 1450 e 1480, anno della morte di R. Colon.
A Padova una donna nubile era rimasta incinta e aveva accusato un certo Aharon Raschia di essere responsabile. I rabbanìm di Padova, dopo aver esaminato il caso, avevano assolto l’accusato da ogni responsabilità. Tuttavia il segàn (colui che decide chi riceve le chiamate a sèfer) del bet ha-kenésset degli ashkenaziti della città si era rifiutato di chiamare il signor Raschia alla Torà per via delle dicerie che la donna aveva diffuso su di lui, nonostante la decisione dei rabbanìm. Per risolvere la questione i rabbanìm di Padova si erano rivolti a rav Colon, che era il più autorevole decisore halachico in Italia settentrionale. Rav Colon esaminò la questione e decise a favore del signor Raschia basandosi su tutta serie di argomenti halachici.
Un testimone non è sufficiente per accusare una persona
La prima motivazione per invalidare l’accusa contro il signor Raschia era che per poter accusare una persona sono necessari due testimoni. R. Colon cita come prima prova la ghemarà nel trattato Qiddushìn (65b) dove è detto che un testimone non è creduto quando l’altra parte nega l’accusa. Secondariamente egli cita la ghemarà nel trattato Pesachìm (113b) dove è detto:
Il Santo Benedetto Egli sia, odia tre persone: colui che parla in un modo e pensa in modo diverso; colui che possiede prove a favore del vicino e non testimonia per lui; e colui che vede una persona che ha commesso un atto immorale e testimonia contro di lui da solo. Una volta accadde che Tuvià peccò e Zigud venne da solo e testimoniò contro di lui davanti a R. Papa. [Rav Papa] punì Zigud. Costui esclamò: “Tobias ha peccato e Zigud è punito!” “Proprio cosi” gli disse [rav Papa] “Poiché è scritto:
«Non potrà un solo testimone deporre contro una persona per qualsiasi peccato o per qualsiasi reato commesso» (Devarìm, 19:15), mentre tu hai ha testimoniato contro di lui da solo. Nel fare cosi hai semplicemente diffuso una calunnia su di lui”.
Rav Colon citò il commento alla ghemarà di R. Shemuel ben Meir, detto Rashbam, nipote di Rashì, nel quale egli scrive: “Dal momento che tu non sei credibile e la tua testimonianza non verrebbe accettata e quindi non hai alcuna mitzwà di testimoniare, hai trasgredito la proibizione di andare a sparlare del prossimo”. Rav Colon aggiunge che da qui si impara che non bisogna prestare fede a un solo testimone in nessun caso, perché se dovessimo prestare fede e imbarazzare l’accusato o ostracizzarlo, per quale motivo [Zigud] fu punito e gli fu detto che aveva calunniato il prossimo? In casi del genere il testimone del fatto può tenere le distanze dal peccatore ma deve tenere per se i suoi sentimenti negativi nei suoi confronti e non può renderli pubblici.
R. Colon aggiunse che la donna che ha diffuso delle accuse contro un uomo, non ha credibilità senza che ci siano testimoni e non ci si può basare su quello che ha detto neppure farsi un’opinione negativa sull’accusato. Pertanto è proibito imbarazzare l’accusato in pubblico e coloro che hanno rifiutato di chiamarlo alla lettura della Torà hanno commesso il grave peccato di imbarazzare una persona in pubblico.
Quando si è sparsa la voce
Rav Colon cita anche la ghemarà alla fine del trattato Qiddushìn (81a) dove i maestri insegnano che si punisce con le percosse una persona sulla quale si è sparsa la voce che si è comportato in modo immorale. E afferma che è evidente che questo vale solo nei casi in cui si è sparsa una voce su qualcuno e questa voce non cessa ed è ritenuta vera da pubblico. Tuttavia quando la voce è stata sparsa da
una persona inaffidabile come la donna in
questione, è più che evidente che non bisogna
prestarvi fede, tanto più che l’accusato è una persona
che ha una buona reputazione (chezqàt kashrùt). E
afferma: “Guai a noi prestare fede a un voce simile,
perché altrimenti nessun israelita potrebbe stare
tranquillo davanti al pericolo che delle persone
senza scrupolo lo accusino di malefatte che non ha
commesso e lo facciano punire dal Bet Din”.
Inoltre rav Colon cita il Maimonide che nelle Hilkhòt Sanhedrin (24:5) scrisse che il Bet Din in qualunque luogo e in qualunque tempo può punire una persona sulla quale si è sparsa una voce che ha commesso un atto immorale, quando la voce non cessa, a condizione però che la persona in questione non abbia dei noti nemici che spargono la voce. E nel caso in questione rav Colon scrive di aver ricevuto una lettera da R. Elia ben Shemuel [di Padova?] nella quale aveva scritto che qualcuno aveva consigliato alla donna di accusare il signor Aharon che era stata messa incinta da lui per fare sì che lui cessasse di imbarazzarla e in questo caso non vi può essere nemico peggiore di così.
La proibizione dello yichùd
Rav Colon scrisse che oltre al fatto che non vi erano testimoni contro il signor Aharon, egli negava assolutamente di essere mai stato solo con la donna che lo aveva accusato. L’aveva incontrata una volta quando si trovava in viaggio con altre tre persone incensurate.
Questa affermazione deriva dalla regola che è proibito ad un uomo ebreo rimanere da solo (yichùd) con una donna ebrea sposata o con altra donna che gli sarebbe proibito sposare (come la suocera, la nuora, la cognata o la figlia della moglie). Secondo la maggior parte dei Rishonìm questa è una proibizione derivante direttamente dalla ToràLa proibizione dello yichùd fu estesa da re Davide anche alle ragazze nubili, e più tardi dai maestri anche a donne non ebree. Inoltre, e questo è l’argomento a cui si riferisce rav Colon, è proibito lo yichùd di un ebreo anche con due donne e quando si è in viaggio con una donna sono necessari tre uomini incensurati (Qiddushìn, 81a).
La decisione halakhica di rav Colon
Rav Colon concluse il suo responso scrivendo che coloro che hanno ostracizzato l’anziano signor Aharon hanno agito male e hanno commesso una grave trasgressione, anche se è possibile che l’abbiano fatto involontariamente [per mancanza di cognizioni]. Tuttavia, ora dopo aver visto quello che hanno scritto i rabbanìm della loro provincia se persevereranno nel loro comportamento dovranno rendersi conto della punizione che si riceve quando si imbarazza una persona in pubblico senza motivo.
E aggiunse: “Alla comunità di Padova ho chiesto di aggregare questo signor Aharon ad ogni funzione di qedushà; e se non fosse che ho rispetto per loro perché sono una kehillà importante, aggiungerei altre parole poco gloriose per loro per il fatto che non hanno dato ascolto ai loro rabbanìm che sono tutti d’accordo nell’assolvere il signor Aharon [...]. E al segàn della comunità di Padova, affermo che meriterebbe di essere messo in niddùy (la forma meno grave di isolamento dalla comunità) se non chiamerà questo rabbi Aharon Raschia a séfer a leggere la Torà quando sarà il suo turno [...]. E in particolare anche perché egli stesso [Aharon] ha affermato più volte che è pronto ad accettare ogni decisione dei nostri rabbanìm se trovassero che lui ha commesso una
qualunque peccato o mancanza. E con questo, io decreto con la forza del nachàsh (tutte le forme di isolamento dalla comunità) che il primo Shabbàt nel quale l’anziano rabbi Aharon verrà nel bet ha-kenésset degli ashkenaziti a Padova, venga chiamato a séfer durante la lettura della Torà come gli altri ebrei. E [il segàn] non rifiuti di ascoltare le parole dei nostri rabbanìm locali [...] e non inciampi più nella trasgressione di imbarazzare una persona in pubblico, riguardo alla quale i nostri maestri hanno insegnato [Bavà Metzià’, 59a) che [chi la trasgredisce] non ha parte nel mondo a venire; e se obbedirà sarà in pace e sarà benedetto per il bene”.
Cosa deve fare chi è oggetto di molestie
Nel caso descritto nel responso di R. Colon, il fatto che non ci fossero testimoni né prove circostanziali, come voci credibili e costanti che l’accusato si fosse comportato in modo immorale, fu la base della sua decisione halakhica nei confronti della comunità di Padova nella quale scrisse che dovevano cessare di escludere l’accusato dalle funzioni comunitarie.
Purtroppo vi sono casi nei quali la vittima pur non avendo testimoni, dice la verità. Cosa si può imparare dal responso di rav Colon in questi casi?
Come prima cosa è necessario cercare di prevenire possibili incidenti osservando in modo scrupoloso le halakhòt dello yichùd. La proibizione dello yichùd riguarda sia uomini che donne e previene situazioni e strascichi spiacevoli per gli uni e gli altri. Poi, nel caso che qualcuno si trovi in pericolo deve fuggire o chiamare soccorsi da persone vicine o telefonando alla polizia. E se, tragicamente, è successo qualcosa, non può diffondere la notizia ma deve rivolgersi al bet din della città che può verificare se il racconto è vero, e decidere se chiedere l’intervento della autorità giudiziarie locali.
Casi del genere richiedono estrema cautela. Rav Sa’adyà Gaon scrisse che la calunnia è una delle tre trasgressioni per le quali una persona non può fare teshuvà perché non può ritirare quello che ha detto. Non è raro che per errore vengano accusate delle persone innocenti o persone che non hanno commesso il crimine di cui vengono accusate che poi vengono condannate ad anni di reclusione. Ed anche se la persona accusata non viene condannata la reputazione è rimasta danneggiata.
Conclusione
Se nel passato la maggior parte delle persone che avevano subito molestie avevano timore di accusare chi le aveva molestate, ora la situazione è cambiata. Da una parte si tratta di un bene per la società in quanto la cosa serve da deterrente per i molestatori. D’altra parte questa situazione offre la possibilità a persone poco scrupolose di fare delle accuse per vendetta o per odio nei confronti di altri. Questo è diventato più facile con i mezzi di comunicazione attuali che hanno reso possibilediffondere velocemente notizie false e calunniare delle persone innocenti.
Nella Halakhà esiste il principio di “chezqàt kashrùt”, che significa che esiste sempre la presunzione che una persona sia incensurata e che l’onere della prova incombe su chi porta delle accuse. R. Feivel Cohen di Brooklyn, citò un episodio che avvenne in Europa tra le due guerre, quando uno shochét era stato accusato di improprietà. In quell’occasione era stato chiesto a rav Barùkh Beer Leibowitz, capo della yeshivà di Kamenitz di rimuovere lo shochét dalla sua posizione. Rav Barùkh Beer puntò la mano al muro e disse che la chezqàt kasherùt di un ebreo è forte come un muro e non si possono prendere decisioni a sfavore di una persona incensurata senza avere prove che abbia commesso delle trasgressioni.
Nella storia ebraica vi sono vari episodi di persone incensurate che furono accusate di atti che non avevano commesso, per vendetta o per altri motivi. È nota l’accusa che la moglie di Potifàr mosse nei confronti di Yosef. Per grazia dell’Eterno, Potifàr credette più alle parole di Yosef che a quelle della moglie e Yosef fu messo in prigione per salvare la faccia della moglie di Potifàr e non fu giustiziato (Bereshìt, 39,12:21 e spiegazione del midràsh Yalqùt Shim’onì).
Un altro episodio, che si concluse però in modo tragico, fu quello del re Achàb che chiese al vicino Navòt di vendergli la sua vigna. Quando Navòt rifiutò perché la vigna era parte del retaggio famigliare, la regina Izevel (Jezabel) procurò due falsi testimoni, Navòt venne giustiziato e il re Achàb ereditò la vigna (I, Melakhìm, cap. 21).
Rav Israel Meir Kagan nella prefazione alla sua opera Chafétz Chayìm scrisse: “Come possono avere effetto le benedizioni che aspettiamo dal Santo Benedetto Egli sia se, a causa dei nostri numerosi peccati, il peccato della maldicenza è diventato un’abitudine?”.
Nella sua presentazione alla traduzione italiana del libro sulle regole della maldicenza, rav Riccardo Di Segni scrisse che “il Chafétz Chayìm è diventato un patrimonio essenziale della nostra vita religiosa. Una guida alla costruzione e al mantenimento di una società basata sul rispetto reciproco”.
In Egitto gli israeliti meritarono la redenzione grazie al fatto che non si assimilarono. Sia volontà dell’Eterno che la nostra generazione possa meritare la redenzione grazie all’attenzione alla mitzwà di non sparlare del prossimo.