TRA DIPLOMAZIA E DIALOGO
di Donato Grosser
Nel 1964, Gerard Wolpe, che era rabbi di una comunità ebraica
conservative nella città di Harrisburg in Pennsylvania, invitò un ministro
protestante nella sua sinagoga a presenziare alle preghiere del venerdì
sera e a partecipare a una successiva discussione su argomenti religiosi.
Questo fu uno dei primi episodi di “dialogo religioso” tra ebrei e cristiani
negli Stati Uniti.
Questo fenomeno era nuovo. Nel passato, i rapporti tra rabbini
e preti cattolici o ministri protestanti erano stati limitati principalmente
a questioni che riguardavano la protezione della comunità ebraica e dei
suoi membri. Vi sono abbondanti aneddoti fin dai tempi di Rashì nell’XI
secolo E.V. nei quali si parla di rapporti tra i nostri Chakhamìm e
personalità della Chiesa. Questi rapporti erano di carattere, se cosi si può
dire, diplomatico. Discussioni su argomenti religiosi erano di carattere
poco amichevole: gli esempi più noti sono le dispute religiose a
Barcellona95 e a Tortosa96, il cui scopo era di cercare di convincere gli ebrei
della verità del cristianesimo. Inoltre, il carattere missionario delle varie
chiese cristiane e le accuse rivolte agli ebrei di essere i responsabili della
morte del loro messia rendevano impossibile l’avvicinamento tra le due
parti.
Fino al secolo scorso, se era necessario risolvere qualche
problema tramite l’assistenza di qualche prete o vescovo, i rabbanìm
(rabbini) li visitavano senza pubblicizzare tali incontri. Così, per esempio,
dopo la Seconda Guerra Mondiale, Rav Izchak Herzog, rabbino capo
dell’Ishuv (insediamento) ashkenazita in Eretz Israel, andò a incontrare
Papa Pio XII in Vaticano per cercare di ottenere informazioni su bambini
ebrei che durante la guerra avevano trovato rifugio in conventi e presso
famiglie cristiane.
La situazione cambiò gradualmente con il decadimento
dell’importanza della religione e, nella prima metà degli anni Sessanta,
con la dichiarazione del Concilio Vaticano Secondo che affermava che gli
ebrei di oggi non avevano responsabilità per quello che avvenne nel
passato. Questo non significava una rinuncia alla conversione degli ebrei.
La posizione della Chiesa cattolica fu già spiegata in modo esplicito dal
reverendo William J. McCormack, direttore nazionale della Society for the
Propagation of the Faith di New York, che in una lettera al New York
Times dell’8 gennaio 1996 scrisse quanto segue: «The Second Vatican
Council states that ?the church ... is by its very nature missionary” and that
the obligation to spread the faith is incumbent on all members.» (Il
Concilio Vaticano Secondo afferma che la Chiesa per sua natura è
missionaria e che l’obbligo di diffondere la fede incombe su tutti i suoi
membri).
Negli Stati Uniti i primi a mostrare entusiasmo per la dichiarazione
conciliare furono i rabbis dei movimenti Reform e Conservative. Il
cosiddetto “dialogo ebraico-cristiano” generò costernazione negli
ambienti degli ebrei fedeli alla Torà e alcuni tra i più grandi decisori
halakhici e talmidè chakhamìm (Maestri di Torà) della nostra epoca
presero posizioni chiaramente contrarie a tali dialoghi, per timore che
anche tra gli ebrei che osservavano la Torà ve ne fossero alcuni che
avrebbero seguito l’esempio dei Reform e Conservative.
LA PRESA DI POSIZIONE DI RAV SOLOVEITCHIK
Il primo a prendere una posizione pubblica sull’argomento fu Rav Yosef
Dov Soloveitchik (1903-1993), Rav di Boston e Rosh Yeshivà della Yeshivà
Yitzchak Elchanan di New York e l’autorità nel campo della Halakhà del
Rabbinical Council of America, la maggiore associazione di rabbini
ortodossi negli Stati Uniti. In una sua lezione (parte della quale fu
pubblicata in Masoret Harav, p. 162) Rav Soloveitchik sottolineò le
differenze tra ebrei e gentili che rendevano impossibile un linguaggio
comune su argomenti religiosi con queste parole:
L’ebreo moderno è integrato nella società delle genti, nell’economia,
nella politica, nella cultura e nella vita sociale. Vivendo tra i gentili
condividiamo l’esperienza storica universale e i problemi dell’umanità
sono anche nostri. La fame nel mondo, le malattie, le guerre, le
oppressioni, il materialismo, il permissivismo, l’inquinamento
dell’ambiente sono problemi che la storia ha posto non solo di fronte
alla comunità delle genti ma anche alla nostra “comunità del patto”. E
l’ebreo come membro dell’umanità ha il dovere di contribuire al bene
generale della società. Qual è quindi la nostra posizione rispetto alla
civiltà moderna, rispetto alle scienze, alla cultura occidentale, rispetto
ai paesi nei quali viviamo? La risposta è inclusa nelle parole “Sono uno
straniero e un abitante con voi”[Bereshìt-Genesi, 23:4]. L’ebreo afferma:
“Sono certamente un residente, sono uno di voi; mi occupo di affari
come fate voi; parlo la vostra lingua; partecipo completamente alle
vostre istituzioni socio-economiche. Tuttavia nello stesso tempo sono
uno sconosciuto e per certi aspetti uno straniero, perché appartengo a
un mondo particolare che a voi è completamente estraneo. È un mondo
nel quale io vivo insieme con il Creatore. È un mondo popolato da
caratteri a voi ignoti, con una tradizione che non capite, con valori
spirituali che ai vostri occhi appaiono poco pratici... È un mondo pieno
di altari e di sacrifici, un mondo di Torà, di benevolenza, di santità e di
purità. Voi vivete in modo differente, pregate in modo differente. La
vostra concezione di carità è diversa dalla nostra; i vostri giorni di riposo
sono diversi dai nostri e cosi via. In queste cose sono un straniero nel
vostro mondo e voi siete degli stranieri nel mio. La sepoltura ebraica è
uno degli elementi rispetto ai quali siamo estranei e stranieri l’uno con
l’altro. Quando un ebreo muore viene sepolto in modo diverso. Un
ebreo richiede un suo cimitero, una tomba ebraica”.
Rav Soloveitchik parlò dell’impossibilità di un linguaggio comune su
argomenti religiosi in un saggio fondamentale con argomentazioni di
carattere filosofico intitolato “Confrontation”, pubblicato nel 1964 (in
Tradition, vol 6:2). In questo saggio egli scrisse in modo esplicito che non
era possibile alcun dialogo con altre religioni e che discussioni o incontri
su argomenti religiosi erano vietati:
Alla luce di questa analisi sarebbe ragionevole affermare che in ogni
confronto [tra la comunità ebraica e la cultura della maggioranza]
dobbiamo insistere che vengano rispettate quattro condizioni di base al
fine di poter proteggere la nostra individualità e libertà di azione. [Una
di queste è che]... il linguaggio con il quale si esprime la molteplice
esperienza religiosa non si presta a standardizzazione o
universalizzazione. La parola di fede riflette l’intimo, personale e
paradossalmente inesprimibile desiderio dell’individuo ... verso il suo
Creatore. Riflette il carattere e la singolarità dell’atto di fede di una
particolare comunità che è totalmente incomprensibile alle persone di
un’altra comunità di fede. Pertanto è importante che il linguaggio
religioso o teologico non venga usato come mezzo di comunicazione tra
due comunità di fede i cui modi di esprimersi sono unici come lo sono le
rispettive esperienze religiose. Il confronto deve avvenire non a livello
teologico ma su questioni ordinarie di tipo sociale e umanitario. In
questo modo tutti noi parliamo il linguaggio universale dell’uomo
moderno”.
L’OPINIONE DI RAV REICHMAN
Nel 2004 Rav Hershel Reichman, un Rosh Yeshivà alla Yeshivà Itzchak
Elchanan di New York e uno dei più illustri discepoli di Rav Soloveitchik,
con il quale aveva studiato per venticinque anni, a seguito della visita di
sette cardinali in yeshivà espresse la sua opinione in una lettera
successivamente intitolata “The Cardinals’ Visit, Thought of a Rosh
Yeshiva”.
Egli iniziò premettendo che la Torà proibisce il cristianesimo agli
ebrei in quanto culto estraneo (‘Avodà Zarà). Egli aggiunse che
nonostante alcune opinioni che sostengano che per i gentili la fede
cristiana non sia considerata ‘Avodà Zarà, lo è certamente per gli ebrei.
Agli ebrei è proibito accettare le credenze e le pratiche dei cristiani. Esse
violano i principi fondamentali della Torà. Infatti affermiamo ogni giorno
questi principi quando, recitando lo Shemà’, diciamo “l’Eterno è uno”.
Rav Reichman scrisse anche che il pesàq halakhà (decisione
halakhica) di Rav Soloveitchik fu scritto nel 1964 proprio a seguito del
Concilio Vaticano Secondo. Rav Soloveitchik affermò che Il dialogo
religioso tra ebrei e cristiani era proibito. Erano permessi contatti
concernenti questioni umane e sociali e in particolare l’antisemitismo.
Rav Reichman aggiunse che nei quarant’anni che erano passati dal pesàq
di Rav Soloveichik non erano avvenuti cambiamenti che giustificassero
una revisione del pesàq stesso.
Stabilito il fatto che il dialogo religioso era stato proibito, restava
da definire cosa costituisse “dialogo religioso”. Rav Reichman scrisse che
le visite di preti in una yeshivà per vedere come si studia Torà nel Bet
Midràsh erano un evento religioso e così pure le visite di rabbini in chiesa
per partecipare a lezioni religiose dei cristiani. Rav Reichman scrisse che
secondo la sua opinione il termine “dialogo religioso” usato da Rav
Soloveitchik comprendeva non solo discussioni di teologia cristiana, ma
anche discussioni di Torà. Egli ricordò che Rav Soloveitchik disse più volte
che anche “Dèrech Halimmùd”, il modo in cui noi ebrei studiamo Torà, fa
parte della Torà. Pertanto tutti questi tipi di discussioni devono essere
evitati.
Rav Reichman aggiunse che la Chiesa fin dall’inizio ebbe come
programma la conversione degli ebrei e la sostituzione dell’ebraismo con
il cristianesimo e a tal fine durante i secoli usò due metodi: la spada e il
dialogo97. Quanto alla spada, “Milioni di ebrei morirono uccisi dalla spada
di cristiani, durante le Crociate, con l’Inquisizione, nei massacri di
Chmielnicki98 e durante l’Olocausto. Molte migliaia di ebrei si
convertirono a seguito del dialogo ebraico-cristiano o di attività
missionarie come avvenne in Spagna prima dell’Inquisizione e poi nel
diciannovesimo e ventesimo secolo in Europa Occidentale e in America”.
E quanto al dialogo “È usato per manipolare gli ebrei. Il primo passo è
quello di parlare. Essi sperano che gli ebrei facciano dei compromessi con
i loro principi e alla fine che accettino in qualche modo la divinità del loro
messia”. E inoltre: “... non dobbiamo ingenuamente considerare roba da
poco il pericolo della confusione [religiosa che il dialogo può causare] nei
nostri circoli ortodossi”. Infine: “Desidero sottolineare quello che sentii
da Rav Soloveitchik: riguardo alla Chiesa Cattolica non dobbiamo usare il
detto di giudicare favorevolmente ogni persona; dobbiamo rispettarli ma
rimanere sospettosi. I milioni di martiri ebrei non chiedono meno da noi”.
Rav Reichman concluse scrivendo: “Questi tipi di incontri devono
rimanere privati dove la prudente decisione halakhica di Rav Soloveitchik
può essere effettivamente rispettata, come lo fu in generale nel passato,
quando i dignitari della Torà incontrarono i leader della Chiesa nelle
situazioni che lo richiedevano”.
Citando le parole di Rav Soloveitchik, Rav Avrohom Gordimer,
membro dell’Executive Committee del Rabbinical Council of America, in
un articolo scritto nel febbraio 2007 per il giornale Yated Neeman
sottolineò che con il saggio Confrontation Rav Soloveitchik proibì il
dialogo interconfessionale. E, data la motivazione della proibizione, Rav
Gordimer sostiene che la proibizione vale per tutti tempi.
LE DECISIONI HALAKHICHE DI RAV MOSHE FEINSTEIN
Nel 1967, Dr. Bernard Lander, fondatore del Touro College, fu invitato a
un convegno accademico con preti cattolici e ministri protestanti. A
seguito di contatti con Rav Moshè Feinstein (1895-1986), uno dei
preminenti poseqim della nostra epoca, quest’ultimo gli disse che era
proibito andare a incontri del genere con religiosi cristiani. Nel suo
responso, pubblicato in Iggheròt Moshè (YD III, 43, p. 278), Rav Feinstein
scrisse che anche se il discorso che Dr. Lander avrebbe dovuto fare era di
argomento puramente accademico “È chiaro ed evidente che si incorre
nella proibizione di cose che appartengono a culti estranei (avizaraihu deavodà
zarà)”.
Egli spiegò che questo tipo di incontri faceva parte della nuova
posizione della Chiesa che si era resa conto che era più facile attrarre gli
ebrei con il dialogo che con la forza. Rav Feinstein aggiunse che Dr.
Lander non doveva neppure partecipare all’incontro inviando il testo
della sua conferenza “perché ogni incontro con loro è un supporto alla
loro strategia...”. Infine egli definì i leader ebrei, “chiunque essi siano”,
che partecipano a tali incontri “dei mesitim umaddichim (traviatori) di
tutto Israele”, aggiungendo che se in tutti questi anni i missionari cattolici
hanno avuto un successo limitato ora, per amor del Cielo, per mezzo di
questi rabbanim senza senno (chasrè da’at) che vogliono associarsi con
loro è possibile che molti di più abbandonino l’ebraismo; e riguardo ai
traviatori essi non possono essere giustificati con la motivazione che non
avevano tale intenzione ...”.
In un’altra lettera scritta a Rav Soloveitchik (ibid., ) Rav Feinstein
reiterò la sua posizione che “ogni associazione con loro anche su
argomenti accademici è cosa proibita in ogni tempo e a maggior ragione
in questo periodo ... in cui si vede che i giornali vantano il fatto che si è
arrivati a un’equivalenza (shivui) delle fedi e a pregare insieme e altre
cose simili99“.
L’OPINIONE DEL REBBE DI LUBAVITCH
L’opinione del Rebbe di Lubavitch relativa al dialogo interreligioso venne
resa pubblica tramite una lettera di risposta a una persona che gli chiese
quale doveva essere la posizione ebraica nei confronti di questo nuovo
fenomeno che “riceveva supporto in vari ambienti ebraici e non
ebraici”100.
Il Rebbe rispose che era sorpreso che lo scrivente avesse dei
dubbi sull’argomento, scrivendo che:
Chiunque abbia delle minime conoscenze della storia del nostro popolo
sa con quale riluttanza gli ebrei in tutti i periodi ingaggiarono discussioni
religiose con dei non ebrei. I motivi erano validi, oltre al motivo
fondamentale che l’ebraismo non aspira ad attirare i gentili e d’altra
parte gli ebrei non sono disposti ad esporsi al fanatismo dei missionari
di altre religioni.
ll Rebbe aggiunse che:
Riguardo a questo argomento ogni generazione ha i suoi problemi
particolari. Per esempio uno dei sintomi particolari dei nostri tempi per
cui la conduzione di cosiddetti “dialoghi” si trasforma in un fenomeno
oltremodo negativo è la confusione e lo smarrimento così comuni e in
particolare tra le giovani generazioni. Uno dei sintomi dai quali si
riconosce questo smarrimento è il declino dei valori; in certi casi sono
stati oltrepassati tutti i limiti ben definiti che esistevano nel passato in
diversi settori della vita di ogni giorno. Dall’abbassamento o anche dalla
eliminazione totale della separazione [mechitzà] nella sinagoga si è
slittato velocemente verso l’eliminazione di tutti i limiti di etica, morale
e anche della normale buona creanza. In diverse aree questo ha portato
a un perversione totale dei valori al punto di far ricordare il lamento del
profeta (Isaia, 5:20): Ahimè a coloro che chiamano bene il male e male
il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che
cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”.
E riguardo alla questione del dialogo il Rebbe osservò:
Uno dei risultati della situazione sopra descritta è la percezione difettosa
esistente presso vari gruppi nei confronti del movimento cosiddetto
“inter-religioso”. Il concetto di “fratellanza tra i popoli” è
fondamentalmente positivo fino a quando è limitato al contesto del
commercio, alle istituzioni filantropiche e ad altri argomenti civili ed
economici della società... Tuttavia la pretesa da parte dei credenti di una
religione di spiegare la loro fede e le loro usanze religiose a persone di
altre religioni e di esporsi a spiegazioni del genere indica una
comprensione errata del concetto di “fratellanza”. Purtroppo queste
attività inter-religiose hanno causato nel caso migliore un aumento della
confusione e nel caso peggiore sono stati uno strumento nelle mani di
missionari fanatici di quelle religioni che vedono come “missione” la
diffusione della loro fede tra persone di altre religioni. L’aumento ripido
nel numero di matrimoni misti ha molte cause. Tuttavia non c’è dubbio
che uno dei fattori importanti è il movimento “inter-religioso” o
“dialogo” (per usare un eufemismo) nel cui contesto i sacerdoti di una
religione vengono invitati a predicare dai pulpiti di altre religioni. Non è
difficile rendersi conto dell’effetto distruttivo di questo fenomeno nei
confronti di quei giovani, e anche nei confronti dei loro genitori, il cui
orientamento e la fedeltà alla loro fede rasentano il minimo assoluto e
si avvicinano allo zero...
Il Rebbe concluse affermando che “è giunto il momento di concentrare i
nostri sforzi nel rafforzamento della fede tra le persone del nostro popolo
e invece di discussioni inter-religiose di porre l’accento sul dialogo con la
nostra gioventù smarrita e, con nostra vergogna e dolore, anche con gli
adulti”.
In sostanza il messaggio del Rebbe era che con la situazione
tragica per via dell’assimilazione, gli incontri, gli abbracci, le preghiere
comuni con dei preti, a parte le gravissime trasgressioni halakhiche, sono
segnali che tra noi e loro non c’è molta differenza e che gli effetti di tali
azioni sono distruttivi.
CONSIDERAZIONI HALAKHICHE NEI CONTATTI INTERRELIGIOSI
A parte le opinioni espresse dalle maggiori autorità della nostra epoca
riguardo al “dialogo”, vi sono anche delle considerazioni halakhiche su
varie attività che vengono svolte nel quadro di questi incontri. Alcune di
queste attività sono state proibite nei responsi dei maggiori poseqìm,
indipendentemente che abbiano luogo nel quadro del “dialogo” o meno.
Un responso comprensivo fu quello del decano dei decisori
halakhici in Eretz Israel, Rav Shmuel Halevi Wosner di Benè Beràq (Shèvet
Halevi, II, 59). Il richiedente, il signor Israel Kraus di Lucerna, scrisse a Rav
Wosner che un certo individuo facendo grande pubblicità aveva lanciato
un programma di incontri tra ebrei e non ebrei invitando gruppi di non
ebrei nella sinagoga ad ascoltare i suoi discorsi su argomenti ebraici e
anche gruppi di preti di Shabbàt durante la tefillà. Il signor Kraus chiedeva
se era permesso parlare delle leggi e delle usanze ebraiche ai non ebrei;
se era permesso studiare la Bibbia da insegnanti non ebrei; e se era
permesso pregare insieme con dei non ebrei nella sinagoga.
Rav Wosner, citando responsi precedenti di R. Shelomò Luria101
e di R. Yesha’yahu Horowitz102 e altre fonti, rispose che era proibito
insegnare Torà ai non ebrei a meno che la cosa fosse stata loro imposta,
come nel caso del decreto dell’imperatore romano citato nel Talmud
babilonese (trattato Bavà Qamà, 38a). Egli aggiunse che già R. Yosef
Shelomò Del Medigo di Candia nella sua opera Metzarèf la-Chokhmà
aveva scritto che “il declino dell’ebraismo in Italia iniziò con lo studio in
comune di ebrei e preti”. Sullo stesso argomento Rav 'Ovadyà Yosèf
(Yabìa' Omer, Y.D., 17) afferma che è proibito insegnare la Torà sia scritta
che orale a non ebrei; è tuttavia permesso rispondere a domande di Torà
a non ebrei solo quando la mancanza di una risposta potrebbe avere
conseguenze negative sull'ebraismo. È anche permesso insegnare le
regole che derivano dalla sette mitzwòt dei Benè Nòach, e anche la lingua
e la grammatica ebraica.
Riguardo allo studio delle sacre scritture presso non ebrei, R.
Wosner rispose che la cosa è assolutamente proibita, menzionando la
halakhà che proibisce di studiare Torà perfino da un Rav che non è
rispettabile (hagun), come scritto in modo esplicito nello Shulchàn ‘Arùkh
(YD, 179 e 246).
Quanto alle preghiere in sinagoga con dei preti R. Wosner rispose
che la cosa era proibita citando varie fonti103. Rav Wosner aggiunse che
questi avvicinamenti tra ‘Ovdè Avodà Zarà (servitori di culti estranei) ed
israeliti “sono consigli dell’istinto malvagio e guai a chi si occupa e si fa
intermediario di queste cose”.
Per chiarire ulteriormente la questione, alcuni mesi fa ho scritto
a Rav David Feinstein, figlio di Rav Moshè Feinstein e suo successore
come Rosh Yeshivà della Yeshivat Tiferet Yerushalaim nel Lower East Side
di New York e uno dei preminenti poseqìm americani, ponendo le
seguenti domande:
1. È permesso dare lezioni al clero cattolico?
2. È permesso recitare i Tehillìm insieme con il clero cattolico?
3. È permesso ascoltare lezioni date da preti cattolici?
Ricevetti risposta telefonica tramite il suo talmid Rav Binyamin Schubert
che mi disse: “Il Rosh Yeshivà ha risposto che niente di questo è
permesso”. Due settimane più tardi incontrai di persona R. David
Feinstein e mi confermò che è proibito in qualunque modo pregare
insieme con dei preti come già scrisse suo padre nella succitata lettera a
Rav Soloveitchik104.
Ho posto le stesse domande ad alcuni dei più importanti poseqìm
americani, R. Feivel Cohen, R. Israel Belsky e R. Herschel Schachter e la
risposta è stata la stessa. A questa domanda R. Menachem Genack, uno
dei principali discepoli di Rav Soloveitchik e direttore generale della
Kosher Division della Orthodox Union, mi ha detto che R. Soloveitchik era
molto contrario a queste cose (”The Rav [Soloveitchik] was very much
against this”). Alla stessa domanda Rav Yosef Efrati di Gerusalemme,
discepolo e braccio destro di Rav Yosef Shalom Elyashiv, e lui stesso un
grande Talmìd Chakhàm105, ha risposto che “riguardo a questi argomenti
[Rav Elyashiv] condivideva l’opinione dei grandi poseqìm negli Stati Uniti”.
CONCLUSIONE
Da quanto scritto è chiaro che nei rapporti diplomatici con il clero
cattolico o protestante sia necessario stare molto attenti a non
oltrepassare il limiti del lecito e ad associarsi ad attività in comune
proibite dai poseqìm. Le autorità menzionate nella prima parte di questo
scritto erano i grandi leader della loro generazione (Ghedolè Ha-Dor) che
non appena il fenomeno del “dialogo” venne alla luce seppero guardare
lontano e lo proibirono. Non si possono ignorare le opinioni delle più
eminenti autorità halakhiche e morali della nostra epoca senza fare del
male a sé stessi e a tutta la comunità ebraica.
* * *
Dopo l’incontro di quel venerdì sera dell’anno 1964 organizzato da Rabbi
Wolpe, nella sua sinagoga conservative, un giovane membro della
congregation che aveva appena raggiunto l’età del bar mitzwà tornando
a casa chiese alla madre, se il rabbi mostrava una tale vicinanza ideologica
con un ministro cristiano, per quale motivo era proibito sposare una
ragazza cristiana. La madre prese il telefono e chiamò rabbi Wolpe
dicendogli: “Ha visto cosa ha fatto?”106.
95 Ebbe luogo dal 20 al 24 luglio 1263 nel palazzo di re Giacomo d’Aragona tra
l’apostata Pablo Cristiani e R. Moshè ben Nachman (Nachmanide), che successivamente
scrisse un rapporto sulla disputa.
96 Durò per ben 19 mesi negli anni 1413-4. Da parte ebraica uno dei
partecipanti fu R. Yosef Albo, autore del Sefer Ha-‘Iqqarim.
97 Questi argomenti vengono discussi dal Maimonide nella Igghèret Temàn
(Lettera agli ebrei dello Yemen) e dal Bet Halevi all’inizio della parashà di Vaishlakh.
98 Bohdan Chmielnicky era un cosacco che aveva studiato con i gesuiti. Nel
1648 condusse la rivolta dei cosacchi contro la Polonia, nel corso della quale furono
uccisi decine di migliaia di ebrei.
99 Iggheròt Moshè (YD. III, 43:2, p. 278 e anche 129:6, p. 392).
100 “Du-siach ben dati shelili me-iqarò” - “Il dialogo tra religioni è
fondamentalmente negativo” (pubblicata in Emunà Umadà’, Kfar Chabad, 1977, pp 79-
83).
101 Yam Shel Shelomò, Bavà Qamà, cap. 4, siman 9.
102 Shenè Luchòt Haberit, Shavu’ot.
103 TB, ‘Avodà Zarà, 17b e le Tosafòt; S.’A., YD, 150, TB, Shabbàt, 127b.
104 Iggheròt Moshè (YD III, 43, p. 278). R. Moshè Feinstein permise le preghiere
in comune con non ebrei (O.C., II, 24) agli scolari ebrei delle scuole pubbliche quando
tali preghiere al Creatore erano “non denominational”, ossia formulate senza alcuna
menzione di religione (egli proibì in ogni caso le preghiere in comune con preti cattolici
e ministri protestanti). Negli anni Sessanta quando ero a Brooklyn in yeshivà ricordo che
il Rebbe di Lubavitch aveva incoraggiato preghiere di questo tipo al fine di promuovere
il monoteismo presso i non ebrei.
105Cosi mi ha detto rav Feivel Cohen che si consultava di frequente con rav
Eliyashiv.
106 Quel giovane successivamente andò a studiare in yeshivà ed è uno dei più
rispettati membri della comunità ortodossa di Brooklyn. L’episodio mi è stato riferito da
lui stesso alcuni mesi fa parlando dell’argomento del dialogo.