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GLI SCACCHI, UN GIOCO EBRAICO NELLA STORIA E NELLA HALAKHÀ

Daniel Fishman

INTRODUZIONE

Da sempre si sottolinea la nutrita presenza degli ebrei in determinati

ambiti, arti, scienze e competenze e, nel periodo della proclamazione dei

Premi Nobel, si valuta con mal celata auto stima e senso di appartenenza,

quanti “fanno parte della tribù”. Nessuna disciplina è però riuscita ad

esprimere una totale supremazia di rappresentanti ebrei come quella

verificatasi nel gioco degli scacchi. Tra i primi tredici campioni del mondo,

cioè fino a Kasparov, prima che l’avvento del computer trasformasse la

dimensione squisitamente umana del gioco in qualcosa di più artificiale,

ben sette erano ebrei o di origini ebraiche e si stima che lo sia il 45% dei

sessantaquattro giocatori più forti dei tutti i tempi. In una Olimpiade a

Buenos Aires, finale Usa e Urss, tutti giocatori erano ebrei. Nella sfida del

secolo, Urss-Resto del mondo terminata con il risultato 20½ a 19½, dieci

su undici russi erano ebrei e tre su undici del Resto del Mondo. Senza

contare la schiera dei teorici che, a tutti i livelli, hanno contribuito allo

sviluppo delle idee strategiche caratteristiche del gioco moderno.

Il fatto che gli scacchi siano una cosa seria lo dimostra anche il

numero di responsi halakhici che trattano l’argomento, i poemi, la storia

e le leggende in ambito ebraico.

Come spiegare questa dinamica, evidentemente non casuale? In

questo intervento proporrò tre ragioni di fondo: le ragioni storico-sociali,

le tante coincidenze tra la forma mentis ebraica e quella dei giocatori di

scacchi e la natura estrinsecamente ebraica del gioco.

LE RAGIONI STORICO-SOCIALI E HALAKHICHE

Il gioco degli scacchi a poco a poco si diffonde, soprattutto nel Medioevo,

periodo nel quale si registrano anche quattro trattati scacchistici

stampati in caratteri ebraici, dei quali il più importante è un breve poema

attribuito al Rav spagnolo Avraham Ibn ‘Ezra (1088-1167). Sono noti

anche quello pubblicato a Mantova nel 1577 “Mishlè shu’alìm” di Ben

Yahia, e quello di Ben Mazaltov di Costantinopoli.

Nel suo poema sugli scacchi R. Avraham Ibn ‘Ezra descrive la

battaglia tra i “neri” e i “rossi”, probabilmente un’allusione ai Mori, cioè

gli arabi, e ai cristiani che negli scritti rabbinici vengono denominati “Edomiti” come Esau chiamato Edom per il fatto di essere rosso.

Nel cercare di capire come si diffonde il gioco, le considerazioni

halakhiche si incrociano con altre più di carattere propriamente

storico-sociale.

Gli scacchi agli ebrei piacciono, e trovano grande riscontro in

particolare tra gli ebrei askenaziti. Un buon motivo del successo è che si

tratta di un gioco del tutto privo dell’elemento della casualità. Ha chiare

regole e un ambito spaziale ben delineato. In altre parole vi è assenza di

condizionamenti esterni e si può prevalere solo con l’estrema

accuratezza del proprio pensiero. Finalmente gli ebrei trovavano così una

disciplina nella quale potevano giocarsela a parità di condizioni.

Un secondo motivo della sua diffusione tra gli ebrei è che è

giocabile da tutti, ed è facilmente trasportabile (per rispondere sul

perché gli ebrei sono spesso buoni violinisti, si risponde – avete mai

provato a scappare in tutta fretta, di notte, con un pianoforte in spalla?!).

Le ragioni halakhiche sono di grande importanza perché a

differenza di altri passatempi il gioco degli scacchi, in quanto gioco

d’intelligenza, non è considerato alla stregua dei giochi delle carte o di

altri giochi d’azzardo.

Nel trattato di Sanhedrin (24b), vengono considerati non credibili

i testimoni portati in Tribunale che siano soliti giocare a carte o ai dadi.

Questo perché fanno dipendere dal caso e dalla fortuna le loro vicende

e non hanno un’occupazione con la quale contribuiscono al bene della

società. In generale non sono permessi i giochi di azzardo e quelli nei

quali la casualità è elemento primario e condizionante. Più in generale

non c’è molta simpatia per le attività che fanno distogliere troppo tempo

dallo studio della Torà, mentre le attività sportive sono accettate

nell’ottica di mantenere sano il fisico e la mente.

Nell’Otzàr Dinìm u-Minhaghìm alla voce “shakh” è scritto che

Rashì fu il primo a a chiamare questo gioco con la parola “iscacchi” e nel

suo commento al trattato talmudico Kettubòt (61b) egli scrive che

corrisponde al gioco chiamato “nadrashir”.

Anche R. Yehudà Halevi nel Kuzari (5:20, sesta introduzione)

menziona gli scacchi scrivendo: “Per questo motivo una persona di intelligenza inferiore non è in grado di battere una persona di intelligenza

superiore nel gioco degli scacchi. Non si può dire che la buona o cattiva

fortuna sono dei fattori quando si combatte nel gioco degli scacchi, come

si può invece dire quando due Re sono veramente in guerra. Questo

perché tutte le cause della vittoria nel gioco degli scacchi sono interne

nella persona. Il giocatore più intelligente quindi vincerà nell’usare

sempre queste cause. Pertanto non deve temere che la sua vittoria

dipenda da fattori esterni, cause naturali o incidentali”.

Nella Halakhà viene trattato del gioco degli scacchi in vari

argomenti. R. Moshè Isserles nelle sue glosse allo Shulchàn ‘Arùkh (Orach

Chayìm, 338:5) afferma che è permesso giocare a scacchi di Shabbàt a

condizione che non si giochi a scopo di lucro. Egli segue l’opinione

dell’autore del Shiltè Ghiborìm (‘Eruvìn, 35b) che permette il gioco degli

scacchi di Shabbàt anche perché non è un gioco d’azzardo ma una

chokhmà (scienza).

R. Chayim Yosef David Azulai nella sua opera Birkè Yosèf (Orach

Chayìm, 338:1) cita rav A. Sasson che nei suoi responsi proibisce il gioco

degli scacchi di Shabbàt e aggiunge che anche R. Chayìm Benveniste nella

sua opera Kenèsset ha-Ghedolà appare propenso a proibirlo anche nei

giorni feriali. R. Azulai, menzionando che R. Benveniste stesso affermò

che dei grandi maestri d’Israele giocavano a scacchi, aggiunge che

certamente costoro lo facevano “Leshem Shamaim” e probabilmente

usavano il gioco degli scacchi come cura per la depressione. Tuttavia nel

Pachad Yitzchàq (alla voce shevua’) viene citato R. Gavriel Pontremoli che

permette di giocare a scacchi di Shabbàt perché fa parte del “‘Oneg

Shabbàt” (gioia dello Shabbàt).

R. Avraham Shim’on Fubini è invece propenso a proibire il gioco

degli scacchi di Shabbàt ma aggiunge: “Cosa posso fare se diversi

rabbanim anziani lo hanno permesso e hanno trovato su cosa basare le

rispettive decisioni”.

Tra i decisori halakhici contemporanei R. Moshè Feinstein

afferma che il gioco degli scacchi di Shabbàt non è proibito ma va

ugualmente evitato in quanto non appropriato allo spirito dello Shabbàt e inoltre diventa proibito se chi perde si rattrista (Iggheròt Moshè, Yorè

Deà, 3:15:2). Anche R. Yehoshua’ Neubert in Shemiràt Shabbàt

Kehilkhatà (I ed., 15:24) dopo avere citato i responsi Chelkàt Ya’akòv

(1:71) e Minchàt Yitzchàq (3:33) permette di giocare a scacchi di Shabbàt

avvertendo però di stare attenti alla fine del gioco di non separare i pezzi

per tipo per non trasgredire la melakha di “borer” che proibisce di

selezionare di Shabbàt.

È interessante menzionare che Samuel "Sammy" Herman

Reshevsky - Szmul Rzeszewski1 che fu uno dei giocatori più forti del

mondo nel periodo che va dalla fine degli anni ’30 a tutti gli anni ’60,

riguardo al gioco di scacchi di Shabbàt affermava: “So che la Halakhà

consente di giocare a scacchi di Shabbàt, però di Shabbàt è proibito

lavorare. E dal momento che gli scacchi sono la mia professione e la mia

fonte di sostentamento, non gioco di Shabbàt”.

Nell’Otzàr Ha-Minhaghìm viene citato un responso dell’anno

1718 del Rav di Ancona che permise a una persona di giocare a scacchi

anche se aveva fatto un voto (nèder) di astenersi dai giochi perché gli

scacchi non sono un gioco ma una scienza (chokhmà). Anche R. Yoel

Pincherle di Alessandria permise per lo stesso motivo. Egli aggiunse che mentre coloro che giocano a dadi, a scopo di lucro, sono squalificati

come testimoni, chi gioca a scacchi non lo è, perché non è un gioco

d’azzardo ma una chokhmà e solo le persone le persone intelligenti e di

buon carattere giocano a scacchi e non i perdigiorno (yoshvè qeranòt,

lett. “coloro che stanno negli angoli” e non fanno niente di buono).

Con tutto ciò, va tenuto conto di quanto affermato dal rav Chidà

che giustifica il gioco degli scacchi come cura per la depressione.

Altrimenti il tempo che non viene dedicato alla parnassà, cioè a lavorare

per mantenere la famiglia, deve essere dedicato allo studio della Torà.

Una interessante eccezione è per alcuni chassidìm la notte tra il

24 e il 25 di dicembre durante la quale si astengono da studiare Torà. R.

Yosef Yitzchak Schneersohn, il sesto rebbe di Lubavitch, raccontava che

suo padre, il rebbe Shalom Dovber durante quella notte giocava a

scacchi2. Apparentemente il motivo era che durante quella notte era

ritenuto pericoloso uscire di casa e andare al Bet Ha-Midràsh a studiare

per timore di essere assaliti dalla popolazione locale. Questa usanza era

però ignota in Lituania, come scrive R. Moshè Sternbuch in Teshuvòt Ve-

Hanhagòt (1:551) e anche presso i sefarditi come scrive R. ‘Ovadyà Yosef

in Yabia’ ‘Omer (7, Yorè Deà:20).

LA FORMA MENTIS EBRAICA E QUELLA DEI GIOCATORI DI SCACCHI

a) La logica degli scacchi è sia relazionale che analogica: si

interpreta il testo (la posizione), se ne estraggono i significati principali,

li si confronta per analogia con i modelli elaborati precedentemente e si

trae da essi delle norme di comportamento (il piano di gioco). In questo,

c’è forte corrispondenza tra analisi e la pianificazione e il Talmud:

entrambe sono attività interpretative: l’uno del testo biblico, l’altra della

posizione scacchistica, tutte e due matrici di ragionamenti che portano

da una parte a formulare norme di comportamento, consuetudini

giuridiche o religiose e valori morali.

b) L’importanza della memoria storica nell’ebraismo e negli scacchi. Avere dei modelli elaborati precedentemente, significa che non

si deve ogni volta ripensare tutte le variabili, perché si sono già più o

meno determinate quali siano le migliori. L’esempio scacchistico più forte

in questo senso è quello delle partite in simultanea (e in eccesso, quelle

della “simultanea alla cieca”), nelle quali un campione affronta decine di

scacchiere di avversari, di solito proponendo a tutti una stessa variante

di apertura in maniera da limitare il quadro delle analisi che deve

compiere.

c) L’importanza di compiere scelte rapidamente.

In un campo infinito di possibili mosse, si accompagna alla necessità di

farlo alla svelta. Spesso così è stato nella storia ebraica; grandi decisioni

da prendere, esaminando tante variabili (a volte drammatiche) in un

lasso di tempo contingentato.

d) L’ importanza di dare il giusto peso ma anche il giusto valore

a tutti. Negli scacchi una mossa a prima vista modesta può essere gravida

di conseguenze. La “Variante Najdorf” creata da Miguel Najdorf - Moishe

Mieczyslav Najdorf (Varsavia, 15 aprile 1910 – Málaga, 4 luglio 1997)

della Difesa Siciliana, si basa in realtà su una sola modesta mossa. La

quinta mossa del nero, l’ 5. … a6, è apparentemente di poca importanza,

ma determina tutta una serie di conseguenze a cascata su tutto

l’impianto di gioco. Gli ebrei e soprattutto i chassidim trovano in ogni

aspetto dell’esistente, anche il più piccolo e insignificante, molteplici

significati, ognuno dei quali conduce a diversi sviluppi, anche molto

lontani tra di loro.

d) Il singolo rispetto alla responsabilità collettiva. Conseguenza

del punto precedente è che la mossa (leggi il gesto) di ogni singolo pezzo

comporta un senso di “responsabilità” verso tutti gli altri pezzi. ‘Arevim

ze la-ze, nella Torà è l’idea della responsabilità individuale che nel

rispetto della legge, diventa principio sociale di solidarietà e comunanza

di destino.

GLI SCACCHI E LA LEGGENDA DEL PAPA EBREO

La leggenda del papa ebreo appare in diverse fonti ed è anche citata nel Yalqùt Me’Am Lo’ez, scritto in ladino, la lingua franca degli ebrei sefarditi

nel Levante. Secondo questa leggenda Elchanàn, figlio di R. Shim’on il

Grande, che visse nel X secolo a Magonza in Germania, fu rapito dalla

serva mentre dormiva e portato in un monastero dove fu ricevette

un’educazione da cristiano. Il giovane ricevette gli ordini e salì

velocemente nella gerarchia cattolica fino a diventare papa. Essendo

cosciente del fatto che era ebreo e consumato dal desiderio di rivedere

suo padre, egli emise un editto contro gli ebrei di Magonza, sapendo che

la comunità ebraica avrebbe mandato suo padre a Roma a intercedere

e a chiedere di cancellare l’editto. R. Shim’on, che aveva una reputazione

come eccellente giocatore di scacchi, dopo la prima udienza viene

invitato dal “papa” a giocare a scacchi e con sua grande sorpresa, scopre

che il “papa” conosce una mossa che egli gli aveva insegnato da bambino.

Alla fine il “papa” rivela al padre la sua vera identità.

LA NATURA ESTRINSECAMENTE EBRAICA DEL GIOCO

Va premesso che i gioco possono essere una faccenda molto seria.

Oggigiorno i giochi sono utilizzati in ambito pedagogico, psicologico, e

professionale. Questo incipit serve per inquadrare il tema del gioco non

come una semplice attività di futile passatempo, ma come una dinamica

in grado di proporre anche importanti chiavi di lettura3.

Tra le varie letture che i Rabbanìm hanno dato degli scacchi,

quella probabilmente più entusiasta e ricca di significati è quella di Rav

Menachem Mendel Schneerson (1902-1994; settima guida spirituale del

movimento chassidico Chabad-Lubavitch). Nel 1949 dedicò al già citato

campione americano di scacchi Sammy Reshevky, ebreo osservante che abitava nel suo stesso rione di Crown Heights a Brooklyn, una pubblica

conferenza in cui diede una interpretazione chassidica del gioco,

probabilmente un tentativo veramente unico di spiegare la dimensione

trascendente attraverso un gioco4.

Come forse chi legge già saprà, sulle 64 caselle della scacchiera

si confrontano uno schieramento bianco ed uno nero, con dei pezzi,

ognuno dei quali si muove in diversa maniera.

Rav Schneerson, tra le altre considerazioni sugli scacchi,

considerava il Re corrispondente al Creatore, ed esattamente come negli

scacchi gli altri pezzi erano dedicati alla sua protezione e al

raggiungimento dei suoi obiettivi. Ciò, a dimostrare come tutto nella

creazione debba esistere per conformarsi ai più intimi desideri

dell’Eterno.

La Regina rappresenta invece il “Malkhùt de-Atzilùt”, la qualità

immanente del Creatore, da cui viene generato il resto della gerarchia

spirituale, inclusi gli angeli (Torri, Alfieri e Cavalli), che abitano il mondo

spirituale e incanalano l’energia divina verso i mondi inferiori. A loro sono

affidate singole specifiche missioni sulla Terra. In pratica, ogni livello di

questa gerarchia ha una sua propria posizione, un suo modo di agire

(muovere), in relazione alla sua missione.

Last but not least, vengono le singole e apparentemente semplici

anime; i pedoni. Sono al livello più basso, ma si muovono davanti a tutti,

in prima linea, e rappresentano le anime degli ebrei incarnate nel proprio

corpo e nel mondo. Lo spostamento di questi umili pezzi (un passo alla

volta e sempre in avanti), rappresenta il passaggio terreno di una

persona, nel quale si è chiamati ad agire in modo semplice ma fermo, nei

limiti della natura di ciascuno, fino a poter ottenere una promozione,

esattamente come quando un pedone riesce ad arrivare in fondo alla

propria colonna di marcia. A quel punto il pedone può trasformarsi in un altro pezzo. Alla fine della sua corsa, viene così innalzato – caso unico in

tutto il Creato – ad un livello superiore, più degli angeli: Malkhùt de-

Atzilùt appunto, il “regno dell’emanazione”, il più vicino possibile al

Creatore.

Rav Schneerson nel descrivere come angeli gli alfieri, le torri e i cavalli, ne

sottolinea il potere limitato dalla loro stessa natura. A differenza del

pedone (l’uomo) non si possono evolvere né possono migliorare sé

stessi.

Discorso differente, invece, per la Regina: il potere e la libertà di

cui gode, le consente di percorrere la scacchiera in lungo e in largo.

Questo però implica che essa possa essere messa in pericolo nel campo

avversario. Questo è quanto accade anche al Creatore stesso, che

permette ad una parte di sé, se così si può dire, di “essere esiliata” in un

mondo che non necessariamente riconosce la sua presenza. Ecco perché

la divinità, secondo il Rav Schneerson, può essere trovata dappertutto e

in qualsiasi momento, persino in situazioni che sembrerebbero negarla.

Infine il Re, il pezzo più importante, la ragion d’essere stessa della

partita a scacchi. All’inizio del gioco sembra essere il pezzo più debole,

quello che ha più bisogno di protezione. Non si getta nella mischia, e, pur

potendo muovere in ogni luogo, lo fa un passo per volta, come un umile

pedone. Questo perché la sua intima essenza lo pone al di sopra del

mondo terreno e dei suoi aspetti mondani. Il suo potere aumenta col

progredire della lotta, fino a diventare preponderante nel finale di

partita, quando la posta in gioco è la sua vita e la vittoria.

Avere la meglio nel gioco degli scacchi – conclude Rav

Schneerson - significa così vincere la guerra di tutte le guerre:

trasformare il mondo in un luogo di armonia, di pace e di tranquillità,

dove nessun aspetto del Creatore è esiliato dal mondo e l’essenza del

Creatore è finalmente unita alla sua Creatura.

NOTE

1 Reshevsky era considerato unanimemente il campione del mondo libero, dal

momento che i campionati del mondo del secondo dopoguerra rimasero una faccenda

privata di quattro ebrei che abitavano nell’Unione Sovietica: Botvinnik, Bronstein, Tal e

Smyslov. Samuel "Sammy" Herman Reshevsky - Szmul Rzeszewski (1911-1992)

discendeva dal talmudista e qabbalista Yehonatan Eibshitz (1690-1764), il quale a sua

volta discendeva nientemeno che dal grande cabbalista Yitzchàk Luria (1534-1572). Si

impose prestissimo all’attenzione del mondo come enfant prodige, sbalordendo già a

sei anni un gran numero di circoli scacchistici europei con le sue esibizioni in simultanea.

E si prendeva molto sul serio autodefinendosi, “Shmulik, der vunder kind” (“Samuel, il

bambino prodigio”), tanto da rispondere in yiddish con la massima naturalezza, dopo

averlo battuto, ai complimenti di un ufficiale tedesco: “Ir shpilt milkhome, ikh shpil

shokh” (“Lei gioca alla guerra, io gioco a scacchi”). Samuel Reshevsky era un uomo

semplice e pio, che partecipava alla vita della sua comunità a Brooklyn e osservava

scrupolosamente la kasherùt. E forse in virtù di questo equilibrio non divenne mai

campione del mondo, pur avendone le potenzialità. Semplicemente, gli scacchi venivano

dopo la sua fede, e quando il Rabbi Yosef Yitzchak gli raccomandò, in cambio di una

benedizione per il buon esito di un match, di studiare giornalmente la Torà, chissà che

non fosse più desideroso di accettare questo compito che di vincere quell’incontro.

2 Toràs Menachèm (vol. 2, p.50).

3 In una recente conferenza Rav Roberto Della Rocca ha sottolineato come

rimanga un paradosso il fatto che il Patriarca che ha più di tutti sofferto sul piano

umano, Yitzchàq, abbia nel suo nome la radice della parola ridere, e come, forse per

sdrammatizzare l’attesa per i tempi messianici, si dice che in quei giorni D. giocherà con

il Leviatano. Queste due considerazioni servono anche per dire che nell’ebraismo gli

aspetti più leggeri e giocosi possono avere una chiave di lettura seria, ma che anche degli

accadimenti di assoluto rilievo e dei principi ispiratori ebraici possono contenere un

aspetto “giocoso”.

4http://www.chabad.org/therebbe/article_cdo/aid/528301/jewish/Chess-The-Gameand-

its-Players.htm

Tag:

Dediche
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