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Halakhà - IL DOVERE DELL’OSPITALITÀ


HAKHNASSÀT ORECHIM: IL DOVERE DELL’OSPITALITÀ

Alberto Moshe Somekh

Queste sono le azioni per le quali l’uomo gode i frutti (peròt) in questo mondo e il capitale (qèren) gli rimane intatto per il Mondo a Venire: l’onore di padre e madre, la Ghemilùt Chassadìm, l’alzarsi presto per recarsi al Bet Midràsh, l’accoglienza degli ospiti, la visita degli ammalati, aiutare la sposa a maritarsi, l’accompagnamento del defunto, dare significato alla preghiera e il recar pace fra una persona e l’altra, ma lo Studio della Torà vale come tutti gli altri precetti messi assieme” (Mishnà Peà e T.B. Shabbàt 127a).

Il Maimonide spiega che sebbene la ricompensa delle mitzwòt sia

rimandata al mondo futuro questi comportamenti, in quanto

contribuiscono al bene sociale (minhag tov ben benè adàm), sono

parzialmente ricompensati già in questo mondo (peròt), senza che sia per

questo ridotto il premio (qèren) relativo nel Mondo a Venire (commento

alla Mishnà Peà, 1:1).

L’obbligo di accogliere gli ospiti e provvedere alle loro necessità

rientra in quella serie di doveri nei confronti del prossimo che va sotto il

nome di Ghemillùt Chassadìm: assisterlo con il proprio denaro e la

propria persona23. Secondo alcuni rientra nella prescrizione: “ama il

prossimo tuo come te stesso” (Wayqrà, 19:18), che consiste nel fare agli

altri tutto ciò che vorresti fosse fatto a te nell’ambito della Torà e delle

Mitzwòt. Secondo altri l’ospitalità si riconnette con la virtù della Nedivùt,

che consiste nell’essere “condiscendenti con il proprio denaro” (watteràn

be-mamonò)24.

L’esempio di ospitalità nella Torà è tracciato da Avraham Avinu

(il Patriarca Avraham), che forniva ai viandanti tre cose: cibo, bevande e

accompagnamento. Ma mentre il dovere di accompagnare gli ospiti è

eseguito con la persona e non ha riflessi economici, quello di dar loro da

mangiare e bere comporta una spesa di denaro e oltre un certo limite

non è necessario andare.

Rifiutare ospitalità può avere conseguenze molto negative. I

nostri Maestri considerano quest’atteggiamento fra le caratteristiche

degli abitanti di Sodoma (middàt Sedòm), i quali rifiutavano ogni

condivisione dei loro averi con i forestieri e per questo furono duramente

puniti25.

R. Yochanan afferma che l’ospitalità è una mitzwà equivalente a

quella di recarsi al Bet ha-Midràsh la mattina presto. Ciò è però vero solo

a condizione che a casa non rimanga nessuno in grado di accoglierli: se

l’ospitalità può essere garantita da un proprio famigliare la mitzwà dello

Studio non passa in secondo piano. Nello stesso passo talmudico si

afferma pure che l’ospitalità data ai nostri simili è più importante

dell’accoglienza della stessa Shekhinà. Lo si evince dall’episodio

dell’incontro di Avraham con i tre viandanti (Bereshìt, 18:1 sgg.), dove

prima è detto che “E l’Eterno gli apparve” e subito dopo il racconto

prosegue “ed ecco tre uomini”. Avraham per così dire invita l’Eterno ad

attendere con le parole: “se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare

oltre il tuo servo”, per andare incontro agli ospiti. Il Talmud ci insegna che

l’accoglienza degli ospiti e l’aiuto dato al prossimo sono importanti

componenti del servizio divino.

Molto insistono i nostri Chakhamìm sull’importanza

dell’ospitalità. Si deve cercare di eseguire questa mitzwà costantemente,

perché è molto importante. Nel Talmud è scritto che “quando esisteva

il Santuario il mizbèach (l’Altare) espiava per l’uomo, ma ora che il

Santuario è distrutto è la tavola della persona ad espiare per lui”, nel

senso che dà da mangiare agli ospiti (TB, Menachòt, 97a). Per merito del

lèchem happanìm (pane di presentazione) che era sullo shulchàn (tavolo)

nel Santuario scendeva la benedizione divina e sazietà al mondo intero.

La tavola è lo strumento per dar da mangiare agli altri “e la Tzedaqà salva

dalla morte” (Mishlè, 10:2, 11:4). R. Bachyè ricorda il minhàg “dei pii di

Francia” di costruirsi la cassa da morto con il legno del proprio tavolo,

“per insegnarci che l’unica fatica che l’uomo si porta nell’Aldilà è la

Tzedaqà che ha compiuto in vita e il bene che ha dispensato intorno alla

sua tavola” (commento a Shemòt, 24:23). Garantire un servizio di

ospitalità per chi arriva da fuori è sempre stato percepito anche come un

dovere istituzionale della Comunità Ebraica26.

L’ACCOGLIENZA

Scrive R. Yonà da Gerona nel Sèfer ha Yir’à27: “Gli ospiti vanno sempre

accolti con volto lieto28 e subito, non appena entrano, ponga davanti a

loro pane da mangiare, poiché a volte i poveri vengono senza aver

mangiato e si vergognano di chiedere. Dia loro il suo pane e la sua acqua

e il suo cibo con volto lieto29. Anche se ha in cuore dolore e

preoccupazioni, li reprima di fronte a loro, li consoli con le sue parole e

sia per loro di conforto (TB, Bavà Batrà, 9b). Li onori come se fossero suoi

padroni. Così abbiamo trovato con Avraham (ibid., 18:3) che li chiamò

padroni. E se pernotteranno presso di lui li faccia coricare nel migliore dei

suoi letti, poiché è grande il riposo di chi è stanco quando è coricato

bene”.

Impariamo da Avraham che non è sufficiente attendere che gli

ospiti arrivino per conto proprio, ma occorre andarli a cercare e farsi loro

incontro. Quando si estende un invito, lo si deve sempre fare in modo da

non suscitare imbarazzo: è preferibile “parlare poco ed agire molto”30.

Così si regolò Avraham nel dire agli ospiti “Prenderò un tozzo di pane, vi

rifocillerete e poi proseguirete” (Bereshìt, 18:5), salvo poi offrire un pasto

molto ricco, come racconta la Torà. Il Profeta Yesha’yahu dice: “Dividi

con l’affamato il tuo pane” (58:7).

I Maestri imparano da qui che è preferibile porgere all’ospite il

pane già tagliato a fette, per evitargli l’imbarazzo e la scomodità di

doverlo spezzettare egli stesso (Zòhar, Vayqrà, 198:1). Per la stessa

ragione non lo si deve osservare mentre mangia (S.A., O.C., 170:4). “Sia

la tua casa aperta largamente” ai passanti, facendo in modo che

chiunque abbia necessità vi trovi accesso senza indugio, come la tenda

di Avraham, che era aperta sui quattro lati per evitare che gli ospiti, da

qualunque parte arrivassero, dovessero fare il giro per trovare l’ingresso

(Pirqè Avòt, 1:5). Occorre fare partecipare i famigliari alla Mitzwà di

accogliere gli ospiti e in particolare abituare i bambini (Bereshìt, 18:6-7

e Rashi ad loc.).

COME DEVE COMPORTARSI IL PADRONE DI CASA

Il Qiddùsh dello Shabbàt e delle feste viene recitato dal padrone di casa

con l’intenzione di fare uscire d’obbligo tutti: è opportuno in tal caso che

prima di iniziare la recitazione formuli l’intenzione a voce alta. Secondo

altre opinioni, dal momento che il Qiddùsh è un obbligo personale per

ciascuno, è preferibile che ogni commensale maschio reciti il proprio

Qiddùsh su una propria coppa di vino, uno dopo l’altro, una volta

terminata la recitazione del padrone di casa.

Se all’inizio del pasto la Berakhà Ha-Motzì viene detta da una

persona per tutti, come in genere accade di Shabbàt e nelle feste, spetta

al padrone di casa recitarla e spezzare il pane in presenza di ospiti (a

meno che questi non siano persone di particolare riguardo). Nel

distribuire i pezzi di pane, il padrone di casa non può lanciarli ai

commensali, nè metterglieli in mano, bensì avrà cura di collocarli davanti

a ciascuno di essi. I commensali, dal canto loro, potranno assaggiare il

pane solo dopo che il padrone di casa avrà fatto lo stesso. Analogamente,

al padrone di casa (a meno che non sia presente un ospite più importante

di lui) è riconosciuto il diritto di servirsi per primo dal piatto di portata.

È opportuno non guardare l’ospite mentre mangia per non imbarazzarlo.

L’ospite (il più importante se ne è presente più d’uno) guiderà lo Zimmùn

e la Birkat ha-Mazòn a fine pasto, affinché inserisca nella recitazione il

brano di ringraziamento per il padrone di casa.

IL RUOLO DELLA PADRONA DI CASA

È uso che la padrona di casa estenda inviti solo con il permesso del

marito, perché sia tutelata la pace famigliare31. D’altronde, il merito della

donna nel fornire cibo pronto ai bisognosi è più grande di quello del

marito che si limita a dar loro del denaro.

A volte l’uomo si astiene dall’accogliere ospiti in casa sua

semplicemente perché desidera piuttosto dedicare il tempo a tavola a

poter conversare con i famigliari. Una massima dei Pirqè Avòt (1:5) recita:

“Yossè ben Yochanan di Yerushalaim soleva dire: ‘Sia la tua casa aperta

largamente e i poveri siano frequentatori abituali di casa tua...’”.

Questa massima ci invita a guardarci dentro e a domandarci: non

accampi forse delle scuse, per non avere gente in casa? Sei proprio sicuro

che anche quando ti siedi con tua moglie le dedichi davvero tutte le

attenzioni necessarie e non ti chiudi invece in te stesso, pensando solo

ai fatti tuoi?

L’ACCOMPAGNAMENTO

Scrive ancora R. Yonà: “Quando (gli ospiti) se ne andranno li accompagni

provviste per il viaggio, poiché “per una fetta di pane l’uomo

è pronto a commettere malvagità” (Mishlè, 18:21).

L’importanza del gesto di accompagnare gli ospiti si impara

soprattutto dall’episodio del morto ucciso di cui non si conosce l’omicida

(Devarìm, 21:7 sgg.). I Chakhamìm attribuiscono tale eventualità ad

un’insufficiente assistenza offerta ai viandanti. L’atto di congedare l’ospite

accompagnandolo è ancora più meritorio di quello di accoglierlo. Allorché

gli ospiti lasciarono la tenda di Avraham diretti a Sodoma, Avraham “andò

con loro per accompagnarli” (Bereshìt, 18:16).

Per quale distanza c’è l’obbligo dell’accompagnamento? Oggi si

parte dal presupposto che anche l’ospite più ragguardevole non insista

per essere accompagnato su lunghi tratti e che le strade siano

sufficientemente segnalate onde evitare errori di percorso e relativi

pericoli. Se poi l’ospite si sposta in compagnia, l’obbligo di accompagnarlo

viene meno del tutto. A meno che non sia necessario indicare all’ospite

la strada da percorrere, si ritiene pertanto che sia sufficiente un

accompagnamento simbolico32.

L’OSPITE

Si adempie alla Mitzwà anche nei confronti di un ospite abbiente. Si parte

infatti dal presupposto che qualsiasi individuo in viaggio sia in condizioni

di bisogno, in quanto dipende da altri per necessità fondamentali come

mangiare, bere e dormire. Se però l’ospite è povero si adempie a due

Mitzwòt assieme: la Mitzwà della Tzedaqà e quella della Ghemillùt

Chassadìm.

Sebbene si adempia alla Mitzwà dell’ospitalità anche se l’ospite

non è istruito, ospitare un Maestro di Torà costituisce un merito

particolare. Il Talmud insegna che “chi dà ospitalità ad un Talmid

Chakhàm in casa sua e gli mette a disposizione i suoi averi è considerato

come se avesse offerto i sacrifici giornalieri (temidìn) nel Bet ha-

Miqdàsh”.

Si adempie alla Mitzwà solo con ospiti che arrivano da fuori città

e dormono a casa sua, ovvero dormono a casa di altri ma consumano i

pasti da lui. Invitare un amico che vive nella stessa città non costituisce

adempimento della hakhnassàt orechìm (Remà, S.A., O.C., 333:1).

Come deve comportarsi l’ospite? Una volta entrato deve in linea

di massima attenersi a tutto ciò che il padrone di casa gli dice di fare (S.A.,

O.C., 170:5): “non si dice di no ad una persona importante”. L’ospite non

è tuttavia tenuto a mangiare tutto ciò che gli viene offerto se non ha più

appetito e tanto meno se ciò potrebbe provocargli problemi di salute.

L’ospite non può sollecitare il cibo dai padroni di casa finché

questi non lo invitano a mangiare, ma una volta che gli portano da

mangiare non è più tenuto ad attendere che gli diano il permesso esplicito

di cominciare. Può però chiedere che gli portino acqua da bere. Se il pasto

è insufficiente per gli stessi padroni di casa non è opportuno godere di

questo pasto anche se insistono che mangi.

L’ospite non è autorizzato a prendere qualsiasi cibo si trovi

davanti a lui ed offrirlo ai figli o agli inservienti del padrone di casa, perché

quest’ultimo potrebbe non disporre di cibo oltre a quello che ha offerto

loro e in seguito si troverebbe imbarazzato se gli ospiti non ne avessero

a sufficienza. È invece permesso offrirne ai bambini se sulla tavola già

apparecchiata quel cibo si trova in grande quantità. È opportuno che

l’ospite non consumi completamente il cibo che gli viene offerto, ma ne

lasci una piccola quantità sul piatto di portata. Se invitato a pronunciare

parole di Torà è buona norma che cominci con il ringraziamento e la lode

del padrone di casa (petichà bi-khvòd akhsaniyyà).

L’ACCENSIONE DEI LUMI

Come ci si regola per l’accensione dei lumi di Shabbàt e delle feste

allorché si è ospiti in casa d’altri? Se il marito si trova fuori casa e ha una

camera solo per sé è obbligato ad accendere i lumi di Shabbàt e non si

esime con i lumi che accende sua moglie. Se la moglie è fuori casa e

accende dove si trova, il marito deve accendere a casa.

Se sia permesso o meno a persone diverse che consumino il pasto

insieme accendere i lumi nello stesso posto è oggetto di controversia fra

lo Shulchàn ‘Arùkh e R. Moshè Isserles (S.A., O.C 263:8). Per i Sefaraditi

l’uso è che una sola persona, in questo caso la padrona di casa, accenda

per tutti i membri della famiglia (ospiti compresi) con la Berakhà: se lo

desidera, l’ospite potrà accendere i suoi lumi accanto a quelli della

padrona senza Berakhà, a meno che non li accenda nella propria stanza,

nel qual caso lo potrà fare con la Berakhà. Per gli Ashkenaziti, invece,

l’ospite potrà recitare la Berakhà anche se accende i lumi accanto alla

padrona di casa, perché ogni lume aggiunto aumenta la luce.

Pertanto una coppia che trascorra lo Shabbàt a casa d’altri può

accendere i lumi nella propria stanza. Lo stesso vale quando si è in

albergo.

Un ragazzo scapolo o una ragazza nubile che riceve un invito per

Shabbàt è tenuto ad accendere i lumi di Shabbàt solo se gli viene

assegnata una stanza per conto suo e se mangia da solo. Altrimenti esce

d’obbligo con l’accensione della padrona di casa.

Per quanto concerne i lumi di Chanukkà, essi vanno accesi nel

luogo in cui si prevede di pernottare. Se pertanto si riceve un invito a cena

con l’idea di rincasare per dormire, si deve aver cura di accendere i lumi

a casa propria prima di uscire, ovvero (se si esce prima che sia giunto il

momento dell’accensione) delegare qualcuno a farlo.

SE IL PADRONE DI CASA È MENO OSSERVANTE

Fin qui siamo partiti dal presupposto che entrambi, il padrone di casa e

l’ospite, siano egualmente osservanti: è ovvio che il rispetto della

kasherùt e dello Shabbàt è conditio sine qua non per l’ospitalità secondo

la Halakhà. Cosa succede se si registrano livelli di osservanza differenti?

Come deve reagire un ospite osservante se riceve l’invito da un padrone

di casa non altrettanto scrupoloso? Le possibilità sono qui due, molto

diverse fra loro. Il primo caso che analizzeremo è quello in cui il padrone

di casa può essere descritto come “meno osservante”: egli osserva in

realtà le Mitzwòt in modo provato e riconosciuto secondo lo Shulchàn

‘Arùkh, ma l’ospite si attiene ad una tradizione più rigorosa. La differenza

qui non è di sostanza, ma riguarda soprattutto minhaghìm ed usanze

accettate da alcuni e non da altri. Pèssach è l’occasione annuale in cui

forse più emergono differenze di abitudine e di comportamento fra

Sefaraditi e Ashkenaziti, nel solco della Halakhà che è cara a tutti e in

linea di principio resta unitaria. È lecito ad Ashkenaziti che esercitano un

rigore maggiore su alcuni cibi come il riso, i legumi e le cosiddette Matzòt

‘Ashiròt rispetto ai Sefaraditi, accettare inviti da questi ultimi?

Rav ‘Ovadyà Yossef z.z.l. risponde al quesito se è lecito ad un

negoziante vendere a clienti Ashkenaziti cibi sui quali essi esercitano un

rigore maggiore rispetto ai Sefaraditi (Yechavè Da’at, I:10). Il Rav ritiene

che sia sufficiente in questo caso avvertire la clientela, tramite un avviso

appeso all’ingresso del negozio, del fatto che i prodotti ivi venduti non

tengono conto di quei rigori. A questo punto i clienti Ashkenaziti sono

consapevoli di ciò che acquistano e si può supporre che lo facciano a

beneficio delle categorie esenti dal rigore. Egli si basa sul Responso del

Rav Yishma’el ha-Kohèn di Modena (Zera’ Emèt, II, 19). Abbiamo due

persone con diverso grado di osservanza che chiameremo

rispettivamente mattìr (“colui che permette”) e ossèr (“colui che

proibisce”). Da un lato è vietato al padrone di casa mattìr nascondere

all’ospite ossèr il fatto che sta portando a tavola un cibo proibito al

secondo: deve rendergli noto quali cibi può mangiare in base al suo livello

di osservanza e quali no, altrimenti trasgredisce il divieto: “non porre un

inciampo di fronte al cieco” (Wayqrà, 19:14). Una volta reso esplicito

tale chiarimento, tuttavia, per tutto il resto l’ospite ossèr può affidarsi al

padrone di casa mattìr senza timore di venir ingannato.

In un ulteriore Responso, Rav Ovadyà Yossef affronta il problema

di un Ashkenazita invitato in una casa Sefaradita durante Pèssach. La sua

conclusione è che “è permesso agli Ashkenaziti che usano proibire riso e

legumi per Pèssach intrattenersi a casa dei Sefaraditi che invece

permettono questi alimenti. I primi possono mangiare le vivande che

vengono loro offerte anche se sanno per certo che sono state cucinate in

recipienti kasher le-Pèssach adoperati anche per il riso e i legumi”.

Pèssach è solo un esempio: è noto infatti che in molti casi la

Halakhà concede gradi differenti di rigore nei confronti di una certa

norma e ciò arricchisce il nostro patrimonio spirituale. Il mattìr ha un

problema di coscienza, mentre all’ossèr si pone un problema di fiducia. La

regola numero uno, in questi casi, si chiama chiarezza. Non sono

ammissibili da parte del mattìr frasi del tipo: “Devi mangiare tutto quello

che ti dò e se non ti fidi mi offendo”. Ma una volta che sono state fornite

tutte le spiegazioni del caso compete all’ossèr fidarsi dell’onestà e della

buona fede di chi lo ospita. Egli riconoscerà a questo punto che la Halakhà

ammette diversi gradi di osservanza e, senza timore di venir ingannato sui

cibi, accetterà quelli che gli verranno offerti anche se preparati nelle

stoviglie del mattìr. Testimonianza dell’unità di fondo della Torà e

salvaguardia dell’unità del nostro popolo!

SE IL PADRONE DI CASA NON È OSSERVANTE

Se il padrone di casa che estende l’invito non osserva le regole della

kasherùt è logico supporre che non ci si possa fidare di lui quando dice

che il cibo che ha preparato per l’ospite è kasher. Ogni situazione va

giudicata separatamente. Mi limiterò qui ad enunciare alcune linee guida:

1) Come principio, se non siamo sicuri che una certa persona osserva la

kasherùt come si deve, sebbene sia nota come affidabile in genere, è

opportuno non recarsi a mangiare a casa sua.

2) R. Moshè Feinstein permette a genitori osservanti di mangiare a casa

di figli non osservanti ciò che questi ultimi preparano apposta per loro,

una volta che conoscano l’indole dei figli e sappiano per certo che

cucineranno solo cibo permesso usando recipienti appositi (Iggheròt

Moshè, YD, 1:54). Lo stesso ragionamento può essere esteso a qualsiasi

caso di ospitalità presso padroni di casa non osservanti. Una volta

sperimentato che questi rispettano la sensibilità e le esigenze di chi tiene

alla kasherùt e hanno di questa una conoscenza basilare, possono essere

affidabili.

3) In ogni caso in cui si sia costretti a declinare l’invito occorre

comunicarlo all’interessato facendo attenzione a non offenderlo né

metterlo in imbarazzo, scegliendo accuratamente le parole per fornire la

motivazione.

SE L’OSPITE NON È OSSERVANTE

I nostri Maestri insistono sul fatto che la Mitzwà della Simchàt Chag, ciò

che ci rimane dell’esperienza festiva dopo la caduta del Tempio di

Yerushalaim, consiste non solo nel mangiare in abbondanza, ma

soprattutto nell’invitare i più disagiati e le persone sole a condividere la

nostra tavola: è pertanto un merito particolare avere ospiti in occasione

di Shabbàt e durante le feste. Per di più se gli ospiti non sono osservanti,

l’invito può tradursi in un’occasione preziosa per far loro condividere

l’esperienza di osservare Shabbàt. Ma cosa succede se questi ospiti

arrivano in automobile? Possiamo transigere in nome della Mitzwà che

compiamo, o viceversa “il nostro vantaggio è neutralizzato dalla perdita”

costituita dalla trasgressione che induciamo di fatto l’ospite a compiere,

mettendo noi “un inciampo di fronte al cieco”?

Rav Moshè Feinstein, interrogato sull’opportunità di organizzare

Minyanìm per ragazzi a scopo educativo in un contesto in cui è chiaro che

essi arriveranno in automobile, risponde che è proibito persino se si tratta

di bambini inferiori all’età del Bar Mitzwà. Aggiunge che se si invitano

espressamente persone che si sa che useranno l’automobile, si incorre nel

divieto di “porre un inciampo di fronte al cieco” (Iggheròt Moshè, OC,

1:98-99). In un altro responso scrive che l’unica opzione possibile, in un

caso del genere, è render nota l’iniziativa senza estendere inviti (O.C.,

4:71).

Analogamente Rav Shemuel Halevi Wozner scrive che “non c’è

altra soluzione che astenersi dal formulare inviti, o quanto meno scrivere

che di Shabbàt occorre arrivare a piedi: magari ci prestassero

ascolto!”(Shèvet Halevi, 8:256). Non c’è sostanziale differenza, secondo

questi Decisori, se la distanza è tale da non poter essere coperta a piedi

o se pur essendoci questa possibilità l’ospite sceglie di arrivare in

macchina. In casi del genere è opportuno offrire all’ospite un’accoglienza

per l’intero Shabbàt.

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