Halakhà - Matrimonio
UNA PROSPETTIVA DELLA TORÀ SUL MATRIMONIO1
Rav Feivel Cohen2
Nella vita ebraica l’istituzione del matrimonio è sacra. Quando un
uomo e una donna si uniscono in matrimonio, promettono di
vivere insieme e di seguire gli ideali e le mitzwòt della Torà, di
avere cura l’uno dell’altro, di avere aspirazioni e scopi comuni
nella vita e, quando possibile, di fare crescere insieme una
famiglia ebraica.
Per l’uomo ebreo, il matrimonio è più di tutto questo: è
anche un obbligo imposto dalla Torà. Questo obbligo, espresso
nella Torà come comandamento è dettagliato nello Shulchàn
‘Arùkh.
Il fatto che la Torà tratti questioni cosi basilari e
onnicomprensive è espresso nel Salmi di Davide con la frase: La
Tua parola è un lume (Ner) per i miei passi e una luce (Or) per la
mia strada (Tehillìm, 119:105).
È chiaro che re Davide usa una metafora e paragona una
persona che va per la strada per arrivare a destinazione, al
cammino della nostra vita.
Il viaggiatore ha bisogno che la strada sia illuminata,
indipendentemente dal fatto che vada a piedi o che viaggi con
qualche mezzo. Se va a piedi, per non inciampare o per cadere in
un fosso; se in automobile, per evitare ostacoli o di scontrarsi con
altre automobili. Questa necessità è espressa da re Davide con le
parole “un lume per i miei passi”. Il lume è necessario per vedere
da vicino.
Oltre a questo il viaggiatore ha bisogno di “Or le-Netivatì”, di un
faro che illumini un’area più vasta per assicurarsi di andare nella
direzione giusta. Infatti una persona può viaggiare bene ma nella
direzione sbagliata. Questa è “Or le-Netivatì”, “una luce per la
mia strada”.
La Torà come guida
La Torà esercita entrambe le funzioni: è un lume che ci guida
passo per passo e una fonte di saggio consiglio per poter vivere
una vita produttiva e soddisfacente con le benedizioni temporali
ed eterne che ci da’ il Creatore.
Di giorno in giorno veniamo regolarmente a confrontarci
con questioni che possono essere risolte solo consultando la Torà.
Per esempio, abbiamo bisogno di direttive per sapere come
comportarci nel mondo degli affari e nei rapporti sociali perché
certamente non vogliamo appropriarci di quello che non ci
appartiene o danneggiare il prossimo. Lo stesso vale nelle
questioni rituali, per esempio, per dire la tefillà in modo
appropriato, per recitare le berakhòt in modo corretto, o per
osservare lo Shabbàt come si deve e così pure per molte altre
cose di comportamento quotidiano. In questi casi consultiamo lo
Shulchàn ‘Arùkh (il codice di vita ebraica) per illuminare i nostri
passi, un passo alla volta.
Al di là di queste preoccupazioni dobbiamo risolvere
questioni a più ampio raggio le cui decisioni hanno ramificazioni
a lunga portata. Per esempio, quando una persona vuole pensare
al proprio futuro deve decidere quale carriera scegliere. A cosa
dedicare gli anni della gioventù: nel Bet Ha-Midràsh o
all’università? In quale città stabilirsi, o anche in quale paese
andare ad abitare?
Per questioni a lunga portata di questo tipo la Torà
funziona da Or, da faro, che illumina un più vasto panorama della
vita. Cosi come riconosciamo che la Torà è “Ner le-Raglì”, un
lume per i nostri passi, che ci insegna come dire la tefillà o come
osservare lo Shabbàt, non dobbiamo anche perdere di vista il fatto
che questioni di maggiore portata come quelle summenzionate
sono fatte per avere la Torà come guida. E dal momento che la
Torà è la rivelazione della volontà divina, usando la Torà come
guida operiamo seguendo la volontà del Creatore.
Vi è un esempio che illustra il punto precedente. Un
gruppo di persone venne a visitare R. Israel Meir Ha-Kohen, detto
il Chafètz Chayìm, per domandare consiglio su una importante
questione comunitaria. Il Chafètz Chayìm, dopo aver brevemente
pensato, rispose: “Dobbiamo porre la domanda al Padrone del
mondo”. Alle persone che lo guardavano senza capire cosa avesse
detto, il Chafètz Chayìm spiegò che si doveva consultare lo
Shulchàn ‘Arùkh dove si poteva trovare risposta alla domanda.
Al fine di sapere cosa il Creatore ci insegna riguardo
all’obbligo di sposarsi, dobbiamo consultare la sezione Èven ha-
’Èzer (1:1) dello Shulchàn ‘Arùkh. In questa sezione ci viene
insegnato fin dall’inizio che la Torà ordina ad ogni uomo di avere
figli, almeno un maschio e una femmina. Da qui impariamo anche
che “We la-’èrev al tanach yadècha” “E alla sera (della vita) non
dar riposo alle tue mani” (Kohèlet 11:6) che ci insegna di avere
figli anche in età matura (ibid. 1:7).
Inoltre lo Shulchàn ‘Arùkh ci insegna che “assùr le-adàm
la’amòd belò ishà” un uomo non deve vivere senza moglie (ibid.)
Questa halakhà deriva dal versetto “Lo tov heyòt ha-adàm levadò
(Bereshìt, 2:18) “Non è bene che l’uomo sia solo”.
La Torà definisce chiaramente il celibato come il contrario
di Tov (bene) e questo vale per ogni uomo, che abbia o che non
abbia già progenie. Inoltre riguardo all’osservanza della mitzwà
di non vivere solo, il fatto che la moglie sia in grado di avere figli
oppure no, è irrilevante.
Sposarsi è un imperativo
Secondo un certo numero di autorità halakhiche (Chelqàt
Mechoqèq, 1:10) un uomo che non è in grado di sposarsi per
mancanza di mezzi, se dispone di un Sèfer Torà, deve venderlo
per prendere moglie (anche se in situazioni normali non è
permesso vendere un Sèfer Torà) anche se lui o la moglie non
sono in grado di avere altri figli. E tutto questo per via della
mitzwà che “non è bene per l’uomo che sia solo”.
Da questo esempio, si arriva facilmente alla conclusione
che il matrimonio è un imperativo che prevale su molti altri
meritevoli fini.
Se osserviamo quello che avviene nella società
contemporanea, anche senza precise statistiche, è noto che al
giorno d’oggi vi è una proporzione maggiore della popolazione che
non è sposata di quanto avvenisse nella generazione precedente.
Questo fenomeno non è limitato alla società generale e si verifica
anche nella società ebraica.
Secondo lo scrivente, il motivo di questa situazione è che
per molti scapoli il matrimonio è considerato una scelta
facoltativa, o forse meglio, il celibato è considerato una possibile
alternativa.
Quando esiste una scelta tra due alternative, è
comprensibile che venga scelta quella più attraente. D’altra parte
quando non si parla di alternative ma di imperativi, ci si da’ da
fare per metterle in pratica.
Questo vale sia per il matrimonio che per le altre attività
e dal momento che la Torà insegna che ti devi sposare, non esiste
altra alternativa.
Per sottolineare quando detto, possiamo menzionare il
versetto della Torà che insegna (Devarìm, 12:17): Non potrai
mangiare la seconda decima nelle tue città (ovvero al di fuori di
Gerusalemme). Rashì commenta: “Certo che puoi, ma non ti è
permesso”. Il Creatore te lo proibisce ma se vuoi lo puoi fare. Il
messaggio è invece che quando il Creatore impone a un ebreo di
non fare qualcosa, quest’ultimo deve pensare che
“semplicemente non posso farlo”. In modo simile quando il
Creatore impone a un ebreo di fare qualcosa la risposta
dev’essere “che lo devo fare”.
Questo vale per la mitzwà di sposarsi nello stesso modo in
cui vale per la mitzwà di mettere i tefillìn, dire lo Shemà’ ed
osservare altre mitzwòt della Torà.
Quali sono le priorità nella scelta di una moglie
Prima di sposarsi una persona può essere dell’opinione che la sua
futura moglie debba avere una lunga serie di doti stellari, tra le
quali un certo aspetto, una certa personalità e intelligenza.
Non c’è bisogno di dire che una ricerca che parta da questi
presupposti potrà facilmente terminare a mani vuote.
È opinione dello scrivente che questo approccio sia
difettoso. A un certo punto uno scapolo deve riordinare le sue
priorità e porre invece l’enfasi su quelli che devono essere i
principali requisiti per la moglie ideale (oltre alla necessaria
compatibilità di carattere): una persona che ha le stesse
aspirazioni e finalità, che ha lo stesso impegno ad osservare la
Torà e che desidera fare crescere insieme una famiglia ebraica.
L’idea della donna destinata
Un errore comune riguardo al matrimonio è l’idea “della donna
destinata”(in yiddish “basherte”). Questa idea serve spesso a
confondere il nostro modo di pensare e a ignorare l’obbligo di
darsi da fare per cercare e trovare moglie.
E così con motivi di dubbio valore si rimanda a un domani o si
resta inattivi per via di quest’idea della “donna destinata”: dopo
tutto se esiste veramente la donna destinata, per quale motivo
bisogna darsi da fare a cercarla? Se è destinata arriverà senza
bisogno di fare nulla e se non lo è, non arriverà anche dandosi
attivamente da fare per cercarla.
Questo modo di pensare è errato. È vero che i nostri
Maestri ci insegnano che “quaranta giorni prima della formazione
del feto una voce celeste proclama: la figlia del tale al tal’altro”
cioè che quest’uomo è destinato a sposare questa donna (Sotà,
1:1), tuttavia essi anche ci insegnano: “La casa e il campo del tale
al tal’altro”, cioè che la proprietà dell’uno è destinata a
diventare di proprietà dell’altro. E in quest’ultimo caso nessuno
di noi è dell’opinione che l’acquisto di proprietà e il procurarsi
i mezzi per mantenersi siano “destinati” e pertanto possiamo
restare inattivi e soffrire le possibili conseguenze del rimandare.
Giustamente non pensiamo così perché è desiderio e
ordine del Creatore che noi stessi prendiamo un ruolo attivo nel
procurarci da vivere e, se non lo facciamo, verremo rimproverati
per la nostra inattività.
Lo stesso vale per l’insegnamento “la figlia dl tale al
tal’altro”. Un ebreo ha l’obbligo di darsi da fare per sposarsi con
lo stesso zelo con il quale cerca di osservare le altre mitzwòt
della Torà, nonostante vi siano dei preesistenti decreti celesti.
Il Talmùd nel trattato Yomà (38b) insegna che se una
persona è sinceramente impegnata ad obbedire i desideri del
Creatore, cioè se vuole che la Torà dia luce alla sua strada e funga sia da lume e sia da faro per illuminare il cammino della sua vita, il Santo Benedetto Egli sia lo assicura che gli starà a fianco e lo aiuterà a raggiungere gli scopi della sua vita.
NOTE:
1. L’articolo è stato pubblicato in lingua inglese nel numero 51 del
Journal of Halacha and Contemporary Society (2006). Viene qui presentato in
italiano con le autorizzazioni dell’editore e dell’autore. Le note e i titoli dei
paragrafi sono stati inseriti dalla redazione. Alcuni paragrafi dal testo originale
sono stati tagliati perché non rilevanti alla situazione degli ebrei in Italia.
2. Rav Cohen è autore del commento Badè Ha-Shulchàn a parti dello
Shulchàn ‘Arùkh, Yorè De’à. Dal 1978 è Rav della comunità Tomchè Torà di
Brooklyn, New York.