Hilkhot Shabbat - Libertà spirituale
N.3 (dal libro "Lo Shabbath" di Isidor Grunfeld)
Il lavoro può rendere liberi, ma si può anche esserne schiavi. È detto nel Talmùd che quando Dio creò il cielo e la terra, essi continuarono a girare senza posa come due rocchetti di filo, sino a quando il Creatore ordinò: « Basta! ». L’attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbàth, allorchè deliberatamente Egli cessò la sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci presenta Dio come libero creatore, che liberamente controlla e limita la creazione da Lui attuata secondo la Sua volontà.
Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera creazione del mondo. L’ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbàth, nel modo prescritto dalla Torà, rende testimonianza della potenza creatrice di Dio. E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell’uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il loro moto rotatorio, che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi dalla legge naturale di causa ed effetto. L’uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso. Osservando lo Shabbàth, l’ebreo diviene, come dissero i nostri Saggi, domè leyotzerò, simile a Dio stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso.
L’uomo è grande solo se collabora volontariamente al piano che Dio fece per il mondo, servendosi della sua libertà per servire Dio e il suo prossimo. Così facendo diviene, come affermano i Rabbini, « un collaboratore nell’opera della creazione ».
Ma la sua stessa libertà può condurlo alla rovina. Il grande potere che l’uomo ha sul mondo della natura e che gli consente di controllarlo e di dominarlo, di imbrigliarne le energie, di modellarlo e di adattarlo alla sua volontà, questo medesimo potere rende fatalmente facile all’uomo pensare a se stesso come a un creatore che non deve rendere conto a nessuno sopra di lui. Noi, che viviamo nel xx secolo, abbiamo veduto che cosa possa portare al mondo e all’umanità il prevalere di simili idee.
È proprio qui che lo Shabbàth ci viene in soccorso; come vedremo tra poco questo è, probabilmente, l’aspetto più basilare dell’osservanza dello Shabbàth. Si può riconoscere la verità fondamentale che è Dio ad aver creato il mondo; ma che cosa significa questo per l’uomo comune? Molto poco. Ma qui, come sempre, la Torà non si accontenta di pura teoria: la Torà si interessa delle azioni, delle conseguenze pratiche. Considerata così, la dottrina acquista vita:«Vivendo nel mondo di Dio e come Sue creature, noi dobbiamo mettere al Suo servizio tutta la potenza umana di cui ci valiamo». Solo così possiamo giustificare la nostra esistenza e al tempo stesso assicurare il benessere nostro e quello del genere umano.
Le norme, uniche nel loro genere, della legge dello Shabbàth servono a tenere sempre presente questa considerazione molto pratica: che ci viene impedito in questo giorno di esercitare la nostra caratteristica potenza umana di produrre e creare nel mondo della materia. Con questa inattività noi deponiamo tale potenza ai piedi di Dio che ce l’ha data. Questa idea fondamentale dello Shabbàt verrà analizzata più ampiamente nei capitoli seguenti. Facendo bene attenzione, possiamo afferrare però sin d’ora quanto lo Shabbàt tenta di dirci.
In realtà, tutte le settimane lo Shabbàth ci dice quello che Dio disse al primo essere umano:« Ti ho messo in questo mondo che appartiene a Me. Tutto quello che ho creato è per te. Stai attento a non corrompere né a distruggere il mio mondo».
In questo consiste l’essenza dello Shabbàth. Con lo stesso atto con cui si proclama la libertà dell’uomo, si dichiara pure che egli è al servizio di Dio. Tutta la nostra potenza posta al servizio di Dio: non vi è maggiore libertà di questa.